Tutto il potere alla mente!

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Se c’è un luogo comune consolidato riguardo alla filosofia, è che essa a differenza della scienza, sia totalmente incapace di giungere a certezze definitive per ciò che riguarda gli ambiti di cui si occupa. Mentre tutti riconoscono, ad esempio, a Niccolò Copernico la scoperta dello scenario eliocentrico, e ad Isaac Newton quella della legge della gravitazione universale, in pochi saprebbero indicare un’effettiva ed indubitabile scoperta di un filosofo, tanto che la filosofia, nella mentalità pragmatista moderna, è diventata, da regina delle scienze che era, quasi un sinonimo della vuota chiacchiera, emblema degli studi universitari inutili per definizione. In realtà, nel suo millenario percorso, la filosofia ha anch’essa ottenuto successi capitali nelle sue indagini, arrivando a modificare il nostro modo di vivere e pensare non meno delle più note creazioni dei grandi scienziati e inventori. Senza risalire la genealogia filosofica troppo indietro nel tempo, sarà facile individuare in Cartesio il vero spartiacque che segna l’inizio della filosofia moderna: dal giorno della pubblicazione del Discorso sul metodo, dato alle stampe a Leida nel 1637, filosofia, scienza e cultura occidentali non sarebbero più rimaste le stesse, con il filosofo e matematico francese che operava una recisione netta dell’ormai precario edificio aristotelico-tomistico della cultura e della scienza ufficiali. Quattro anni dopo, con la pubblicazione delle Meditazioni metafisiche, la frattura si fece definitiva, e malgrado nel Discorso, destinato ad un ampio pubblico, fossero contenute già riflessioni per quell’epoca rivoluzionarie, fu in questo testo, scritto in latino e destinato all’élite culturale dell’epoca, che Cartesio espresse le sue tesi più rivoluzionarie.
La scoperta essenziale di Cartesio contenuta all’interno delle Meditazioni, dalla quale il pensiero occidentale non riuscirà più a tornare indietro nonostante la confutazione di numerose altre teorie e tesi del filosofo, è quella dell’io o, per dirla in termini cartesiani, del cogito. L’impatto dell’assioma “je pense, donc je suis”, di cui ci è nota la celeberrima traduzione latina “cogito ergo sum” che, era già comparsa nella III parte del Discorso del 1637, nelle Meditazioni viene esplicitata in tutta la sua portata rivoluzionaria.
Contrariamente all’opinione comune, che vede nel cogito una sorta di elogio del pensiero critico che non si arrende ai pregiudizi della cultura dominante, l’essenza del messaggio di Cartesio è molto più profonda e ricca di sfaccettature, ed è il prodotto non di un processo di giudizio morale, quanto piuttosto di un ragionamento rigoroso, fedele alla prassi delle scienze matematiche. Intimamente convinto, alla luce delle scoperte scientifiche della sua epoca, dell’insostenibilità delle proposizioni della filosofia aristotelico-tomistica, il fine di Cartesio fu da subito quello di costruire una nuova filosofia, un nuovo edificio, tanto morale quanto metodologico, che mettesse al riparo la fede dalla corrosività delle scienze, ed al contempo che proteggesse la libertà di ricerca da queste ultime dallo sterile dogmatismo di una cultura ufficiale ormai insostenibile. In ossequio alla prima regola del suo metodo (accettare come vero solo ciò che ci si presenta in modo chiaro e distinto e che non può venire messo in dubbio), nelle Meditazioni Cartesio procede ad una nigredo filosofica in cui, armatosi del dubium scettico, comincia a minare tutte le certezze su cui si era basata la filosofia occidentale fino ad allora. La ricerca del punto archimedeo sul quale costituire il nuovo edificio morale e scientifico non risparmia, nella sua corrosività, né l’idea di Dio né quella della materia stessa. L’argomento dell’illusione del sogno, già accennato nel Discorso, nelle Meditazioni diventa occasione per mettere in dubbio l’esistenza medesima del mondo esterno alla mente. In un attacco frontale agli empiristi e a Bacone, oltre che al vecchio sapere aristotelico che faceva della “realtà” la sua base di partenza, Cartesio scardina l’intera certezza dell’esistenza basata sul mondo proclamando l’illusorietà dei sensi. L’affermazione di San Tommaso d’Aquino, la quale proclamava che “nessuno può pensare, se non è”, viene contestata da Cartesio in maniera radicale allorché l’affermazione viene ribaltata: nella filosofia cartesiana “nessuno può essere, se non pensa”. Nella prospettiva del matematico francese è l’essere a configurarsi come attributo del pensiero e non l’opposto come invece era stato nei precedenti duemila anni di filosofia medievale ed antica. Per comprendere la forza dirompente dell’affermazione cartesiana occorre però tornare indietro di un passo, e ripercorrere il processo di nientificazione che il dubbio ha portato a compimento a riguardo della realtà.
Applicata la prima regola del metodo, ossia considerando come vero solo ciò che ci si presenta come chiaro e distinto, emerge il rovescio della medaglia per il quale tutto ciò che non si presenta come chiaro e distinto è da respingere. La conoscenza sensibile, tanto cara agli empiristi quanto agli aristotelici, aveva ricevuto un colpo mortale nella sua credibilità dalle scoperte di Copernico e Galileo: nella nuova scienza non si poteva dunque fare affidamento su di essa in alcun modo. Persino le verità eterne della matematica sono dubitabili quando, alla luce di un dubbio ancorché iperbolico, possiamo pur sempre dubitare che esse ci appaiano esatte per il semplice motivo che un onnipotente genio maligno intenderebbe prendersi gioco di noi.
L’esistenza stessa di questo dubbio, la mera natura di possibilità che esso implica, reca però con sé una certezza indistruttibile anche dal dubbio iperbolico: l’esistenza del mio pensiero. Per quanto il mio pensiero possa essere fuorviato, ingannato e distratto dalla verità non c’è nulla, nemmeno un genio maligno onnipotente, che possa eliminare da me la consapevolezza che penso, la quale implica una necessaria esistenza. Si tratta, in realtà, di un’intuizione non nuova, che Cartesio mutua da Agostino, il quale aveva già connesso l’esistenza con l’attività del peccato. Cartesio tuttavia applicherà questa visione in una prospettiva totalmente alternativa a quella di Agostino. Se per entrambi l’anima viene scoperta tramite l’introspezione del pensare, ciò può avvenire, secondo Agostino, solo grazie e con Dio. Nulla di tutto ciò è vero per Cartesio: nella sua visione anima e pensiero corrispondono, e il filosofo può accedere a sé stesso anche senza l’aiuto di un provvidenziale Dio Ottimo. Da entità attiva e partecipante, Dio diventa, nel sistema filosofico di Cartesio, un mero garante: egli ha creato ex nihilo ogni legge della natura, ma esse procedono poi in automatico nella loro costante auto-applicazione, e così fa anche l’uomo, scoprendo ciò di cui abbisogna da sé stesso. L’essere di Dio cessa quindi di essere attore del processo pensante, per accontentarsi della mera funzione di custodia e garanzia. La mia unica certezza è quindi l’esistenza del mio cogito, nemmeno l’esistenza del mio corpo è certa, in quanto sussunta da quei medesimi sensi che il dubbio ha già proclamato fallaci e perciò non degni di fede. Da qui l’evidente prospettiva solipsistica di Cartesio: se non sono certo che il mio corpo esista, allora non è possibile dire con certezza che gli altri esistano, io infatti percepisco il loro essere corporeo e la loro attività mentale esclusivamente attraverso i miei sensi, che sono fallaci. “Se guardo fuori dalla finestra e vedo degli uomini attraversare la piazza, come ho appena fatto, dico normalmente che vedo gli uomini stessi […]. In realtà, cosa vedo dalla finestra se non cappelli e cappe che potrebbero nascondere degli automi?”, scrive dubbioso Cartesio nella seconda delle sei meditazioni della sua raccolta: è il trionfo del solipsismo cartesiano, Dio e il mondo hanno perso la loro centralità ontologica, ed essa si è spostata sull’unico soggetto di cui non possiamo più dubitare in alcun modo, che è, appunto, il Soggetto. Quella che potremmo definire come un’ovvietà, lo è solo in virtù del fatto che oggi tale assunto cartesiano è talmente connaturato al nostro modo di pensare dall’essere percepito come la semplice realtà delle cose. Né l’io, né tantomeno la sua schematizzazione nella figura di soggetto, erano entità ignote al pensiero antico, tuttavia nessuno aveva mai osato, tanto più alla luce di una prassi distruttiva come quella del dubbio iperbolico, porlo al centro dell’essere. La filosofia medievale si era limitata, per dirla con Peirce, a rimanere nel ruolo di “pensiero del commento”, ossia quello di un sistema filosofico che ricoprisse un ruolo meramente ancillare nei confronti della realtà data così come veniva percepita. In Cartesio invece, il mondo e Dio, dal rango di radici ontologiche che ricoprivano nei vari sistemi del pensiero antico e medievale, cessavano di offrirsi contemplativamente al soggetto come base per auto-costruirsi; al contrario, cominciava il processo opposto, tutt’ora in corso. La percezione della centralità del Soggetto era perciò qualcosa di totalmente rivoluzionario in un contesto, come quello del Seicento, dove nonostante i progressi scientifici in atto il pensiero medievale continuava a ricoprire il rango di ortodossia accademica e teologica. Ciò che Cartesio riuscì a compiere fu dunque l’equivalente filosofico della rivoluzione copernicana: laddove essa aveva scoperto che era la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa, così Cartesio aveva dimostrato, nella maniera più incontestabile possibile, come non Dio o l’Oggetto, ma il Soggetto costituisse costituire l’architrave del processo conoscitivo.
La mia natura si fa dunque inconoscibile se non nella sintetica consapevolezza di essere una res cogitans, una cosa che pensa, e che alla luce di questa prima ed unica convinzione decifra tutto ciò che è fuori da essa.
Uno spartiacque capitale, che sembra occhieggiare, nella sua attualità, all’antico Protagora. Vi è però un elemento prometeico, o addirittura luciferino nella filosofia di Cartesio, che si esplicita nella natura stessa che il filosofo di La Haye conferisce alla mente. Se essa, come da lui teorizzato, si divide in intelletto finito e volontà infinita, è quest’ultima, proprio in virtù della sua infinitezza, a godere di un diritto di prelazione. Il dubbio iperbolico di Cartesio è infatti figlio della volontà che intende attuarlo, ed essa non è quindi avvinta dalle catene della realtà e della verità. La prevalenza gerarchica dell’elemento volontaristico nel pensiero di Cartesio può essere desunta proprio dall’uso che il filosofo fa della sua celebre prassi dubitativa: a Cartesio non interessa la credibilità o meno dei dubbi che propone, quanto soltanto la sua produzione. La veridicità o meno delle ipotesi che Cartesio propone al pensiero non è mai questione dirimente, e le prospettive iperboliche aperte dal dubbio non sfociano mai in un’inquietudine incapacitante o esistenzialistica. Al contrario, è solo il fine ultimo -la scoperta dell’indubitabile- ad essere realmente importante; ma chi, se non la volontà dello stesso filosofo ha concesso a tale scoperta il ruolo di reale importanza che ricopre? Nessuno. La volontà si giustifica solipsisticamente da sé. Era l’inizio del lungo processo che porterà poi al nichilismo.
A tale proposito, Cartesio continua ad insistere nella terza meditazione. Di per sé, le idee delle cose che ho dentro di me, se non si riferiscono a nulla d’altro, non sono di per sé mai false. Fino a che rimane in me, un’idea è tanto vera quanto innocente, totalmente slegata da pregiudizi morali. Posso immaginare una capra o un animale mitologico, ma dal momento che immagino entrambe, la loro dignità è pari, e la chimera non ha meno dignità della capra, poiché ci troviamo ancora all’interno del piano assolutamente reale e garantito del mio cogito. Per la volontà, che è interna al cogito stesso, vale lo stesso principio: sia che io desideri cose malvagie, sia che io ne desideri di buone, nulla può negare la realtà della volontà e la sua natura assoluta. La volontà può compiere scelte morali o immorali, ma volontà come nudo principio rimane assolutamente innocente e sovrana, al riparo da qualsivoglia giudizio. Al contrario, sono proprio i giudizi a non salvarsi dalla critica cartesiana. Schiavi come sono delle apparenze sensoriali, bisogna essere estremamente guardinghi nel prestare loro fede. Non c’è errore più grave, prosegue Cartesio, che giudicare “le idee che si trovano in me, simili o conformi alle cose fuori di me”, in quanto ci riporterebbe alla vecchia dipendenza dall’esterno, al pensiero come commento inteso dalla filosofia medievale. I giudizi sono dunque, alla luce del metodo di Cartesio, da intendersi come falsi, contrariamente alla volontà che invece è innocentemente vera. Riecheggia già qui il volontarismo di Nietzsche (da giudizi falsi a morali false il passo è brevissimo), ma la centralità del Soggetto avrà un’eco ben più vasta, inaugurando, oltre al vasto filone della fenomenologia, anche quello dell’esistenzialismo.
Il ruolo di Cartesio nella storia della filosofia è dunque centrale, come riconosciuto dallo stesso Hegel, che non può certo essere considerato un apostolo dell’individualismo. Ad oggi, ed anche in questo caso, il pensiero di un filosofo dato per assodato al fronte materialista nonostante una fede ai limiti dell’inossidabile, rimane ancora poco esplorato nelle sue potenzialità, e se da un lato è vero come l’onnipotenza del Soggetto pensante apre la via a qualsiasi postmodernismo, nonché al completo slegamento tra identità dell’anima e identità del corpo – con tutto ciò che modernamente ne consegue-, nondimeno emergono elementi interessanti verso i quali orientare un’ulteriore indagine filosofica in chiave affermatrice. Se da un lato è sorprendente come non si sia mai sottolineato in maniera sufficiente il ruolo precipuo della volontà nel pensiero del primo filosofo della scienza, dall’altro si rende ancora una volta manifesta la carenza di analisi per quanto riguarda il potere della volontà stessa in rapporto al ruolo della mente e del Soggetto.
La Scienza appare sempre meno come un modello inattaccabile di certezze assolute, per configurarsi piuttosto come reticolo di prospettive diverse a seconda dei fini volontaristici (e della collocazione spazio-temporale) che le si attribuiscono. Soggetto, ma soprattutto volontà, acquisiscono e mantengono quindi un valore centrale nel processo conoscitivo ed epistemologico, e poco sorprende che la Scienza non arrivi ad alcuna “conclusione” dal momento che la si giustifica sull’esclusiva base di sé stessa e non sulla volontà umana di farne un uso sottomesso alla volontà medesima. Ma per scoprire che cosa vuole, il Soggetto prime e l’uomo poi, devono primariamente scoprire che vogliono. Una scoperta, quella della volontà, che in realtà è già ricorsa più volte, da Cartesio fino ai postmoderni, passando per Schopenhauer, Nietzsche e Sartre, ma la cui potenzialità non sembra essere stata ancora sufficientemente intuita. Quale sia la ragione di questa mancanza di intuizione sarebbe un discorso complesso da affrontare in questa sede, ma se l’uomo non coglie il nocciolo di questa necessità di appagamento mediante l’espansione della conoscenza, ciò è probabilmente causato dall’insterilirsi della sua facoltà a percepire, e soprattutto giustificare, il bello in quanto tale. Se, cartesianamente, la chimera è tanto vera quanto la capra, la decisione su cosa vogliamo portare alla realtà riposa su canoni eminentemente estetici, e tale decisione non sarà possibile fino a che mancheranno poeti ed artisti a cantarci la bellezza della chimera e la bruttezza della capra.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.