Teofania. Eredità e ritorno di Walter Friedrich Otto

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Con il ritorno di Teofania nelle librerie italiane si comincia a chiudere un vulnus notevole nel panorama editoriale italiano, ovvero quello che vede ormai trascurata la vasta produzione libraria dello storico delle religioni e filosofo tedesco Walter Friedrich Otto. Dallo scorso 14 Gennaio, Adelphi ha dato alle stampe la seconda edizione italiana del densissimo testo dedicato alla religione greca. L’ottima prima edizione, curata dalla casa editrice Il Nuovo Melangolo, era datata ottobre 1996 e ormai da diverso tempo era purtroppo diventata irreperibile.
Teofania, uscito postumo ad Amburgo nel 1959 nemmeno un anno dopo la dipartita di Otto, rappresenta un vero e proprio condensato del pensiero dell’autore a proposito dell’antica religione greca e soprattutto della prospettiva dell’uomo greco nei confronti del sacro. L’opera di Otto prende le mosse dalla lunga tradizione filologica classica tedesca e dal consolidato neoclassicismo letterario e poetico tedesco che, nato con Johann J. Winckelmann due secoli prima ed arricchitosi poi con Goethe e Schiller, trova proprio in Walter Friedrich Otto la sua chiusura ed al contempo una delle testimonianze più significative. Lontano da afflati crepuscolari e nostalgici, Teofania restituisce al lettore un’Ellade rinnovata, che risplende eterna nell’immagine della giovinezza dei suoi dèi. Chi e cosa sono gli dèi greci? Hanno ancora un messaggio per noi? Che cos’è il mito? Sono queste alcune delle domande che, da una prospettiva greca, trovano risposta esauriente in questo gioiello. Otto prende fin da subito le distanze da un punto di vista, quello positivistico ed evoluzionistico, che a suo avviso non poteva spiegare il fenomeno della nascita e dello splendore della religione greca omerica. Oggetto di una tanto radicale quanto disincantata critica è la nozione di “stupidità originaria”, secondo la quale gli uomini antichi avrebbero cercato, mediante la magia, di insufflare la vita nei loro oggetti salvo poi, non riuscendoci, creandosi immagini di dèi a propria immagine e somiglianza. La prospettiva in questione è adulterata, sostiene Otto, da una forma mentis totalmente modellata dai canoni utilitaristici dell’età della tecnica. Solo una mente moderna può concepire l’incontro con la sfera del divino alla stregua dell’invenzione di un pezzo di ricambio in sostituzione di un arnese non funzionante. Si tratta del medesimo specchio deformante che, ricorda Otto, induce a ravvisare nel mago l’antenato dello scienziato moderno, il cui unico compito non è la mimesi col divino quanto piuttosto la risoluzione di problemi della vita quotidiana (l’approvvigionamento idrico, la vittoria in battaglia, la fertilità dei campi della città etc).
Tale povera visione materialista è, a proposito della religione degli Elleni, tanto errata quanto quella proposta dalla cosiddetta psicologia del profondo. L’idea, tutt’ora in voga, secondo cui Zeus, Atena, Ermes, Apollo, Afrodite etc, sarebbero soltanto antropomorfizzazioni di fenomeni connessi all’interiorità dell’uomo è, per Otto, da scartare radicalmente. Questa chiave interpretativa psicologista, più collegata alla Sehnsucht schilleriana ed alla rivendicazione orgogliosa dell’alienazione religiosa del giovane Nietzsche filologo, è da rifiutarsi in quanto gli dèi
“sono presenti con la loro divina grandiosità in ogni sfera dell’essere, quella cosmica, quella elementare, quella vegetale, e quella animale, rendendole specchio della loro propria natura. Ognuna di queste divinità può dunque, senza pregiudicare la sua forma superiore, non soltanto avere accanto a sé un animale o una pianta, ma manifestarsi come pianta o come animale ed essere così venerata. Il razionalista lo definirà feticismo”.
Differentemente dalla concezione del “velo apollineo” gettato sull’orrore dell’esistenza, gli dèi greci sono, per Otto, viventi fuori, all’interno e tramite noi, ma giammai sono soltanto proiezioni unilaterali delle disposizioni dell’animo dell’uomo verso gli oggetti che lo circondano. La deità greca può essere solo sperimentata, non può essere espressa tramite concetti. La riduzione a concetto della divinità obbliga infatti a tracciare un confine, impensabile per l’uomo greco, tra sacro e profano, tra uomo e divino. La lontananza assoluta degli olimpici è, infatti, perfettamente sovrapponibile alla loro assoluta vicinanza. Il rapporto che lega uomini e dèi nel pensiero e negli studi di Otto è costante e biunivoco. Non esiste umanità senza divinità, né esiste divinità senza umanità. L’uomo, evidentemente differente dagli animali, ha disposizioni dell’animo che lo rendono ricettivo alla sperimentazione degli dèi in prima persona. Questa sperimentazione, che si declina nella commozione e nell’essere afferrati dal bello (Ergriffenheit), nella nascita e nella pratica del mito, e infine nell’arte (“[…] l’ape può superarti nello zelo / il verme in abilità può farti da maestro / con spiriti eletti dividi il tuo sapere / ma l’arte, o uomo, l’hai tu solo.” F.Schiller, “Gli artisti”), è ciò che eleva gli uomini al rango di attori, seppur temporanei, all’interno del grande dramma cosmico. Gli dèi, a loro volta, possono essere solo compresi e, in ultimo, manifestarsi a pieno titolo, solo nel cuore degli uomini. Questo ciclo di manifestazione e sperimentazione è la teofania in senso stretto. Questa concezione, tuttavia, non ha nulla a che vedere né con l’invasamento mistico delle religioni dell’Oriente né con la visione beatifica tipica delle religioni monoteistiche. Il greco dell’epoca omerica non aveva alcun bisogno di essere afferrato e portato da un mondo disincantato ad una sfera divina, non ne abbisognava nemmeno nella forma, più tarda, del culto misterico. Lo iato tra mondo sacro e mondo profano è, per il greco antico, inconcepibile. Il divino, per i Greci, è già qui tra noi, non ha alcuna necessità di venirci rivelato; l’Apollo delfico non proclama alcun “io sono”, ma ammonisce con voce ferma “conosci te stesso!”. Un invito che però non è da intendersi in chiave psicanalitica, quanto piuttosto nel tradizionale motivo ellenico del rifiuto della hýbris. Conoscere sé stessi significa in primo luogo conoscere i propri limiti, non oltrepassarli, ricordarsi di essere mortali, e in quanto tali ricordarsi di onorare gli dèi e di non paragonarsi ad essi.
Ma la rivendicazione di distanza da parte di Apollo, ed in generale di tutti gli dèi omerici, non ha nulla in comune la gelosia del Dio vetero e neotestamentario. Nel mondo mitico degli Elleni, se tutto è ricolmo di dèi, il libero arbitrio così come concepito cristianamente non può trovare cittadinanza. Tutto è voluto e predisposto dagli dèi, e conoscere i propri limiti, ovvero il riconoscere della propria assoluta impotenza di fronte ai numi, non si limita soltanto a richiamare gli uomini a rimanere al proprio posto, ma li libera anche del senso di colpa soverchiante che li colpisce quando essi errano, o rimangono vittime del fato o dei propri vizi. Così Elena ed Agamennone possono, pur riconoscendo i loro errori e pagandone le rispettive conseguenze, rimanere ritti anche di fronte alla catastrofe e trovare comunque un movente divino nelle loro azioni. Essi non sono mai soli a tu per tu con i loro peccati, ma sempre un nume ne raccoglie il fardello, e tanto la gloria quanto la morte sono inscritte nella medesima trama intessuta, garantita e confermata dalla divinità. Nel duello tra Achille ed Ettore sotto i bastioni di Ilio, tanto la vittoria del figlio di Peleo quanto la morte del figlio di Priamo sono frutto del consenso di Zeus, garantito dalla partecipazione di Atena allo scontro fatale. L’inganno della dea che muta la propria forma in quella del giovane Deifobo invitando incautamente Ettore allo scontro che lo porterà alla morte non ha, agli occhi del greco, alcunché di riprovevole: allorché Ettore si riconosce come vittima dell’inganno, egli non insulta la dea né si lamenta dell’ingiustizia subita, ma comprende immediatamente come il medesimo fato sia, contemporaneamente, tanto la sua rovina quanto la gloria di Achille. L’elemento moralistico è qui totalmente assente. Nella totale assenza di una prospettiva soggettivistica, non esistono inganni moralmente sbagliati: ogni atto, anche quello che secondo le leggi dell’uomo è riprovevole, ha un suo fine nel grande dramma divino. Ettore non rimane solo di fronte al suo fallimento, Atena lo accompagna gloriosamente nell’Ade tanto quanto incorona di gloria il capo dell’eroe acheo. Anche gli eventi più infausti e luttuosi celebrano, nel loro tendersi nel dolore e nel conflitto, l’insopprimibile vitalità dell’Essere. Così nell’Odissea il re dei Feaci, il saggio Alcinoo, consola Odisseo naufrago alla sua corte:
“E dimmi per che cosa tu piangi e ti affliggi nel cuore,
udendo il destino dei Danai argivi e di Ilio.
Gli dèi lo vollero e filarono essi la rovina per gli uomini,
perchè anche per i posteri vi fosse materia di canto.“
(Odissea, VIII, 577)
La volontà umana non ha qui alcuno spazio, tanto che, ed Otto si premunisce di sottolinearlo più volte nel corso dell’opera, l’antica lingua greca non ha alcun vocabolo che indichi l’accezione moderna di volontà (né tantomeno di volontà di potenza secondo l’accezione nietzscheana).
Tutto è ricolmo di dèi, e la teofania è sostanzialmente il movimento costante tra polarità umana e Olimpo. Ne consegue che quando questo movimento viene a mancare, quando cioè l’uomo muore. Egli muta completamente di stato. In quanto movimento gli dèi non possono assolutamente nulla nel nuovo stato di immobilità che l’ombra del defunto raggiunge. Nulla può essere immobile ed in movimento al contempo. Per questo gli dèi non hanno nulla in comune con i morti, nemmeno quando entrano negli inferi stessi, per visitarli o per governarli. La vita che gli dèi rappresentano, ossia la vita come concetto e come totalità, non può morire, ma possono morire solo gli individui che la compongono. Per questo il confine tra mondo olimpico e mondo sotterraneo non potrebbe essere più profondo: l’Ade è l’Assolutamente Altro, e non vi dimorano più né coscienza né luce. L’Ade, affidato alla custodia delle antiche deità del sangue e della consuetudine è il luogo dell’assoluta negazione, è il santuario del limite, è la dignificazione del concetto di confine che, proprio perché tale, rende possibile lo sfolgorante splendore delle divinità immortali, contrapponendosi ad esse come termine di paragone dell’assoluto limite e dell’assoluta tenebra. In virtù di questo, e solo di questo, le lire degli olimpici durante i loro banchetti cantano la transitorietà e le tragedie delle sorti umane. Esse sono infatti il metro di paragone che permette di definire anche la sublime immortalità e la beatitudine della vita come fenomeno dato in sè. Nell’Ade il defunto sopravvive solo in quanto ombra; il presente, ossia la vita, ossia il movimento, sono quaggiù inconcepibili: per questo egli appare esclusivamente come immagine rassomigliante a come appariva da vivo. Non può infatti prendere alcuna forma afferente allo stato di incoscienza che ora lo avvolge. Il passato, dunque la vita, pur nella sua pura forma mnemonicamente decomposta, rimane l’unico termine assoluto di paragone. Ciò che l’uomo può fare, nell’attesa di dimorare in questa dimensione, è preparare con cura l’immagine della propria ombra: conformarsi con spirito virile al destino preparato dalla Moira è dunque motivo di onore, poiché rivestirà di nobile accettazione l’immagine che sopravviverà a noi sotto forma di gesta e ricordi tra coloro che sono ancora vivi.
L’esistenza immortale autentica si esperisce nel momento del contatto col divino, il quale si presenta a noi nella presenza teomorfica del mito. Il mito, che in Otto non è separato dal culto ma ne è l’espressione più piena e immediata, diviene l’affermazione e la forma di fede più totale dell’insopprimibile anelito vitale di tutto l’esistente. Lontano dalla concezione di mera “poesia”, il mito nella forma decantata da Otto non si limita a commemorare le vicende degli olimpici, né tantomeno a dispensare favolette moralmente edificanti. Il mito e la sua rappresentazione sono, nella forma di “rapimento” che generano in colui che lo ode, nella sua commozione ed Ergriffenheit, la presenza effettiva dell’evento mitico. Il medesimo movimento che spinse gli eroi ad amarsi, scontrarsi, morire, pregare, si fa presente, abolendo ogni distinzione spaziale e temporale, nell’ascoltatore. Questa vera evocazione, che ha fatto talvolta impropriamente parlare di “religione artistica” è il più genuino atto di culto della religione greca, e secondo Otto è il culto vero e proprio a derivare dal mito, e non viceversa. Dioniso, il distruttore dei limiti, il consolatore degli uomini, l’immediatamente prossimo, è non a caso il patrono di questa irruzione del divino nel mondo, così come della caduta di ogni confine tra esistenza ed inesistenza: così ci ricorda Otto in un altro testo, “Dioniso. Mito e culto”, anch’esso ormai introvabile nella sua prima ed unica edizione italiana edita da Il Melangolo nel 2005.
In questa concezione, al contempo drammatica e vitalistica sta, per Otto, l’idea più genuina dell’approccio religioso dello spirito europeo. Solo in questa prospettiva, lontana tanto dalla cesura tipicamente orientale tra sacro e profano, quanto dal principio utilitaristico tipico dell’etnologia e della storia delle religioni per come viene concepita oggi, può celarsi la via che conduce ad una ripresa autentica della vita finalmente libera dall’alienazione della tecnica. E’ nel momento della comprensione del ciclo della teofania che cade la muraglia che separa il fenomeno dal noumeno, così che ogni atomo riappare ripieno di Dio e la desertificazione spirituale lascia finalmente apparire la natura più piena ed insopprimibilmente viva di ogni sfaccettatura dell’Essere.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.