Se il complottismo diventa un demone

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Secondo l’Enciclopedia Treccani, il primo utilizzo del neologismo “complottista” risale al 30 dicembre del 1990, all’interno di un editoriale del defunto Giorgio Bocca. La medesima enciclopedia, alla voce medesima recita:
“complottista s. m. e f. e agg. Chi o che ritiene che dietro molti accadimenti si nascondano cospirazioni, trame e complotti occulti.”
Si tratta di una definizione quantomai vaga e fumosa, che però proprio in tale vaghezza ben riassume l’uso onnicomprensivo e facilone che di questa parola si può fare. Si badi bene che la definizione fornita dalla Treccani non accenna minimamente all’attitudine patologica ad attribuire tutto, o quasi tutto ciò che accade, a non ben precisati “complotti”. Bisognerebbe altresì chiedersi che cosa sia un complotto. Potremmo definire come tale qualsiasi disegno volto a produrre un cambiamento di stato o più in generale un evento determinato, senza che però tale intento sia pubblicamente noto. Non è detto infatti che un complotto implichi necessariamente un fine discutibile, se non addirittura nefasto. Chiunque voglia, per le più svariate ragioni, non rendere manifesto ciò che fa al fine di produrre un cambiamento sociale sta, nei fatti, complottando. Parlare di complotti non significa, quindi, riferirsi necessariamente a logge segrete, raduni sovranazionali di grand commis ed altri topoi più o meno romanzeschi, quanto piuttosto parlare di un’attitudine universale dell’uomo presente da sempre nella storia. La gran parte dei cambiamenti storici è dovuta, nei fatti, a complotti. Dall’assassinio di Giulio Cesare alla Rivoluzione Francese, dalla Riforma Protestante alla guerra civile spagnola, passando per la presa del potere di Napoleone Bonaparte, la storia è un susseguirsi ininterrotto di catene di complotti, orchestrati, oltre che sventati, sia dai poteri dominanti sia dalle masse di subalterni e di sudditi.
Tuttavia, nonostante i complotti siano all’ordine del giorno, il solo poterne paventare l’esistenza è diventato titolo di dileggio. L’orripilante neologismo del web “gomblotto”, usato per troncare ogni discussione (che riguardi la stramberia della terra piatta o le acclarate manovre di palazzo per sostituire Conte con Draghi poco importa), potrebbe essere l’esempio preclaro di chi, con la prassi della reductio ad ridiculum, vorrebbe mettere a tacere le opinioni di coloro che dissentono dalla propria. Ma se la nostra riflessione si fermasse qui, credo, sorvolerebbe l’essenza del problema e cioè l’uso che si fa dei concetti stessi di complottismo e di complotto. Il discorso anti-complottista possiede moltissime similitudini di un’altra grande narrazione allarmistica della nostra contemporaneità: quella contro l’odio (o tutto ciò che al sistema mediatico ama definire come tale). In gioco non c’è tanto l’odio od il complottismo, l’esistenza dei quali si dice, a parole, deve essere soppressa, quanto piuttosto il monopolio dell’esercizio di entrambe le prassi. Esattamente come i complotti, l’odio è una costante all’interno dei processi storici. Dietro ad ogni cambiamento storico significativo c’è una qualche forma di odio: religioso, razziale, etnico, di classe etc.
Le guerre tendono ad essere perse se le proprie schiere non odiano quelle nemiche, così come difficilmente si verificheranno rivoluzioni o cambiamenti sociali di rilievo se lo status quo vigente non diventa in-tollerato, e dunque odiato, dalla maggior parte di coloro che ne sono sottoposti. Buona parte dell’itinerario culturale dell’Illuminismo è stato costituito da una continua, diremmo oggi, istigazione all’odio nei confronti delle èlites politiche e religiose del tempo, e dell’assetto sociale sul quale esse riposavano. Identico discorso potrebbe essere fatto con l’intera opera di Marx, che senza una robusta componente di odio di classe difficilmente avrebbe conosciuto tanta fortuna tra le masse proletarie europee e non solo. Dalla Guerra dei Cent’Anni a quella dei Trent’anni, dalla vittoria di Maratona alla fine dell’apartheid sudafricana, quasi nessun avanzamento storico avrebbe potuto prodursi senza una necessaria dose di odio verso una determinata situazione sociale o politica, assieme ai gruppi che, a torto o a ragione, ne erano ritenuti i responsabili. L’odio, prima ancora che l’economia, feticcio tutt’ora caro a marxisti e liberali, è il più forte motore della dialettica storica. In gioco non è quindi l’esistenza dell’odio quanto piuttosto il monopolio del suo esercizio.
Non è un caso che coloro che più si danno da fare, perlomeno a parole, nella lotta contro l’odio, ne siano poi i più generosi praticanti e dispensatori. L’arma è troppo potente per rimanere riposta nella sua custodia, perciò non rimane che costruirsi una giustificazione, quando non una predestinazione (magari avallata, come nel caso del marxismo, da una qualche pseudoscienza) e si può ricorrervi senza troppi sensi di colpa. L’importante è che l’odio rimanga monopolizzato dalla parte “giusta”, il che equivale fondamentalmente a togliere all’avversario ogni possibilità di attuare un cambiamento della propria situazione di subalternità. Proclamare nemico pubblico l’odio tout court significa mettere fuorilegge anche l’odio per ingiustizia, obbligandoci ad amarla o quantomeno ad esserle indifferenti mentre altri ne sono bersaglio. Questo è il senso di tutte le leggi nominalmente contro l’odio attualmente in vigore o in corso di approvazione nel mondo occidentale.
La crociata contro il complottismo segue la stessa dinamica. Bollare come ridicola l’attitudine di chi dubita della verità data, quale che essa sia (politica, religiosa, filosofica, scientifica etc.) significa bloccare ogni riflessione a proposito della stessa. Di più, significa castrare lo stesso pensiero critico. Anche qui: coloro che lottano contro il complottismo, in realtà non fanno altro che rivendicarne il monopolio. L’intera narrazione dell’attuale sistema di potere è una continua messa in pratica delle varianti più paranoiche del complottismo, spesso scadente in esiti caricaturali e grotteschi. Movimenti politici di estrema destra con poche migliaia di tesserati vengono definiti “maree” o “galassie nere”, deliri di onnipotenza di pochi internauti disadattati vengono presentati come complotti ai danni dell’ordine mondiale, raduni di scettici su vaccinazioni e pandemie vengono definiti come “gruppi di odiatori” che intendono sabotare le magnifiche sorti progressive che faticosamente la Scienza starebbe cercando di garantire alle nazioni, disagi informatici e blackout vengono attribuiti senza alcuno straccio di prova ad azioni di fantomatici hackers al servizio di potenze straniere che complotterebbero ai danni dell’ordine liberaldemocratico dell’Occidente.
Si potrebbe continuare all’infinito ma la verità è già emersa: chi oggi combatte il complottismo non intende sopprimerlo, quanto piuttosto averne il monopolio di esercizio. Garantirsi un simile regime di monopolio rende disponibile al potere un formidabile specchio ustore in grado di convogliare le frustrazioni e la rabbia dei subordinati nei confronti di questa o quella minoranza (o maggioranza?) scomoda ai disegni di chi comanda. Il processo inverso non è, chiaramente ammesso. Il potere non può, ça va sans dire, accettare di poter essere definito menzognero. In un regime di liberaldemocrazia (che però appare sempre meno democratico, e ancor meno liberale) è possibile contestare la legittimità di singoli provvedimenti del governo ma giammai la legittimità ontologica del regime stesso. Ciò non è un titolo di demerito, ma un semplice punto in comune che unisce tutti i sistemi di potere, di tutte le epoche e di tutti i luoghi; la crociata contro il complottismo delle postdemocrazie odierne tradisce soltanto la volontà, da parte delle stesse, di salvaguardare una sempre più precaria idea di eccezionalità che ha contribuito, almeno fino ad ora, a creare un’illusione di una supposta fine della storia garantita dalla quadratura del cerchio di un ordinamento politico perfetto finalmente raggiunto.
La Scienza non fa eccezione: essa è al contempo vittima e -suo malgrado- attrice della crociata anticomplottistica. In tempi pandemici come questi era inevitabile che anche l’ambito scientifico fosse investito dalla crociata in questione. Se, come recita il noto adagio, la verità è la prima vittima della guerra, il conflitto contro il Covid-19 non ha fatto eccezione. Mai come oggi è diventato ridicolo, oltre che, spesso, vietato, dubitare della realtà ufficiale a proposito della pandemia in atto. Se la Scienza, vera e propria divinità contemporanea è, come ogni dio che si rispetti, muta, i suoi sacerdoti invece parlano in continuazione. Qualsiasi obbiezione è immediatamente bollata come complottismo. Va da sé che il pensiero scientifico genuino, che nacque proprio grazie all’assoluto rifiuto di ogni dogmatismo, non andrebbe troppo d’accordo con questo atteggiamento, e che la tecnocrazia fa rima, nemmeno troppo ironicamente, con teocrazia. Senza la continua messa in dubbio della verità accademicamente ed ufficialmente data non avremmo mai assistito alla rivoluzione scientifica e vivremmo in un mondo non troppo diverso da quello in cui scrivevano Tommaso d’Aquino ed Alberto Magno.
La prassi scientifica possiede, tra le altre cose, tutti i mezzi necessari per scremare la parte patologica di quello che il potere definisce complottismo da quelli che invece sono ragionevoli dubbi a proposito del paradigma vigente. La prassi sperimentale, che i primi scienziati moderni definivano molto correttamente cimento, vera e propria punta di diamante del pensiero scientifico, è perfettamente in grado di smentire assurdità come quella della terra piatta o del misterioso pianeta killer Nibiru, così come è in grado di appurare l’ipotesi, definita complottistica solo pochi mesi fa, dell’origine artificiale del virus Covid-19. Se la Scienza può fare questo è evidente che il definire qualsiasi obiezione contraria alla narrazione ufficiale come “complottismo” nasconde ben altro che non la lotta all’ignoranza; ignoranza la quale, ben inteso, non dovrebbe venire repressa, quanto piuttosto contraddetta alla luce delle evidenze.
Dietro alla lotta contro il complottismo non c’è, quindi, una salvaguardia della Scienza (o di qualsiasi altro ordinamento positivo), quanto piuttosto una precisa volontà, tanto folle quanto utopistica, di imbalsamare la storia in una sorta di tempo delle mele che all’inizio del XXI secolo si credeva di avere raggiunto a titolo permanente e che invece comincia ad allontanarsi, come un faro lontano, per fare spazio a oscuri marosi fatti di populismi, potenze esterne fattesi ostili e, più in generale, scetticismo culturale a proposito dei destini meravigliosi che aspetterebbero l’uomo nel mondo egemonizzato dalla tecnica.
Il rapporto che la narrazione del potere mantiene con l’elemento della Tecnica apre scenari ancora più vasti che per ragioni di tempo e spazio non possiamo qui approfondire. Basti comunque la riflessione sul fatto che proprio l’utopia di una tecnica che si auto-alimenta, in barba a qualsiasi calcolo a proposito della finitezza delle risorse planetarie, rafforza il dogmatismo nascosto dietro alla paranoia anti-complottista. L’idea che ormai la tecnica sia una sorta di palla da biliardo in marcia su di un infinito, ma precario, piano inclinato, legittima pienamente il potere a proteggere questo piano inclinato da chi mette in dubbio il fatto che esso ci porti verso un mondo desiderabile. Si sa, il dubbio a proposito delle utopie è da sempre poco gradito agli utopisti, che più ancora degli utopisti concorrenti, odiano pervicacemente e primariamente i realisti; non di rado la reazione degli utopisti è, come stiamo vedendo, rabbiosa e pericolosa, un fatto che deve portare gli spiriti liberi dotati di pensiero critico a rendersi conto della missione storica e dialettica che incarnano anche solo parlando e diffondendo il proprio pensiero. Ironicamente, proprio questa volontà progressista di imbalsamazione dell’orizzonte di pensiero attuale rappresenta il più grande nemico del vero progresso, che è sempre intellettuale prima che tecnico. Quest’ultimo, quando slegato dalla sua vocazione intellettuale, diventa mero artificio, mera technè ad uso ludico che non porta alcuna innovazione reale, in quanto solo la libertà di pensiero autentica consente un uso proficuo dell’ingegno. In una società mentalmente imbalsamata nella conservazione, come ad esempio fu per millenni quella della Cina dei mandarini, la polvere da sparo rimane un divertissement buona solo a creare i fuochi d’artificio e non uno strumento di potenza per difendere la propria nazione. Rifiutare il dogmatismo di chi oggi dichiara suoi principali nemici il complottismo e l’odio è quindi un passo imprescindibile nella difesa del vero progresso che, come sempre, non potrà che trionfare di fronte all’utopia di bloccare la storia di un’umanità in una determinata stazione solo perché quest’ultima si è rivelata un fin troppo comodo ricovero per alcuni uomini ormai appartenenti ad epoche defunte.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.