Se Gramsci sfida Hume

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Nel suo onesto scetticismo, David Hume riconosceva i limiti della natura umana, e da bravo britannico, come il suo contemporaneo Edmund Burke, anteponeva i limiti della prudenza a quelli dell’azzardo filosofico e sociale, così come si limitava ad accettare l’uomo tanto nelle sue brutture quanto nei suoi pinnacoli di sublimità prometeici; fedele alla virtù britannica e liberale della prudenza, non si spinse mai a teorizzare alcun “uomo nuovo”, diversamente da molti suoi contemporanei e posteri nati invece tra le braccia del Continente. Negando, contrariamente a John Locke, alcun connotato paradisiaco originario allo Stato di Natura, il pensatore britannico si opponeva radicalmente alla tradizione giusnaturalistica liberale affermando, certamente più vicino al vero, che alla luce delle conoscenze storiche e dell’evidenza dell’attualità dell’Europa del tempo, l’origine del potere affondava più nella violenza e nella sopraffazione che non in uno stato paradisiaco pre-moderno successivamente decaduto per colpa dell’affermarsi delle società. L’occhio disincantato del pensatore scozzese si guardava bene dal riconoscere alla specie umana qualsiasi connotato che la predisponesse ad una qualsivoglia ascesi in senso positivo: l’uomo è e rimane ciò che è, e la sua malvagità e la sua cupidigia sono e saranno sempre elementi costitutivi del suo essere tanto quanto lo saranno l’onestà e tutte le più alte disposizioni dell’animo. Essendo gli aspetti negativi della natura umana ineliminabili, l’uomo, secondo Hume, ha codificato una serie di strumenti, norme e figure per tenerli a bada: per questo sono nate le società. La società nasce dunque sotto forma di collaborazione tra strutture in grado di frenare l’uomo malvagio, più che da un patto per tutelare le libertà dell’uomo onesto. La differenza tra le due sfumature, a prima vista assolutamente poco significativa, si acuisce se si guarda più da lontano al giudizio sulla natura umana che ne traspare. Da un lato, quello giusnaturalistico lockiano, un generico ottimismo sul fatto che si possa tornare, emendando le degenerazioni dei dispotismi, ad uno stato di natura di completa armonia tra gli individui, dall’altro la disincantata necessità di dover gestire un animale, l’uomo, palesemente non in grado di vivere in pace senza le dovute costrizioni. Per Locke dunque la società emerge sulla base della fiducia, mentre per Hume sulla base del suo contrario. E’ l’approccio generalmente scettico del filosofo di Edimburgo a dare una profonda influenza alla tendenza di affidare un ruolo sempre più pesante alle magistrature a scapito del potere legislativo ed esecutivo. Per Hume, il governo deve essere libero, ed il potere deve essere il medesimo di quello di un monarca del suo tempo, ma deve però essere frazionato tra diverse componenti e sottopoteri. E’ l’origine del concetto liberale di divisione dei poteri, che tanta fortuna avrà in Europa nei secoli successivi. Con lo scopo di mantenere separati questi poteri l’uno dall’altro, ovvero al fine di evitare una concentrazione di poteri (anche nel popolo!) in grado di portare ai dispotismi, Hume attribuiva grande importanza alle leggi, secondo una formula, enunciata ne “Della libertà civile” che prevede che si affermi “un governo di leggi, e non di uomini”. La ripresa dello stilema aristotelico che vede l’uomo sottomesso alle leggi, non va considerata però come l’affermazione di un potere normativistico spersonalizzante. La sovranità appartiene agli uomini, ma solo in quanto deleganti la loro sovranità alle istituzioni stesse, che si muovono al ritmo delle leggi. Il primato del legislativo sull’esecutivo sarà anch’esso un caposaldo del pensiero liberale, destinato a far scuola più o meno in tutte le nazioni europee; emerge però chiaramente la problematica che pone l’accento sull’interpretazione delle leggi stesse, e su quanto esse possano essere, dal momento che vengono promanate, neutrali, e non pregiudicate da schemi ideologici preimpostati.
Si tratta di un vulnus abbastanza vistoso (seppur non ai tempi di Hume) all’interno del pensiero politico liberale, che ancora contrapponeva semplicemente libertà e dispotismo, ma che era ancora poco avvezzo a differenziare le varie strade con la quale la libertà stessa andava perseguita, o ancor di più dalla problematica su cosa fosse la vera libertà. Ne consegue, che nello Stato liberale moderno i poteri si frenano tra loro, ma “uno frena più degli altri”, e questo potere, dovendo interpretare le leggi stesse, costituendo cioè la cinghia di trasmissione tra il Legislativo (nominalmente sovrano) e l’Esecutivo, detiene un reale potere di veto su tutti gli altri, malgrado le ottimistiche aspirazioni dei contemporanei di Hume.
Dello stesso parere era Montesquieu, il quale sarà il vero e proprio cristallizzatore della dottrina della separazione dei poteri, attribuendo, ne “Lo spirito delle leggi” un ruolo centrale ai cosiddetti poteri intermedi. I poteri intermedi, più che entità politiche nel vero senso della parola, erano, per il pensatore francese, i rappresentanti di quelle classi pensanti ed agiate in grado di far “scorrere” il potere tra un ganglo istituzionale e l’altro, quella che oggi chiameremmo la società civile. Preoccupato però solo del dispotismo, Montesquieu non si curò troppo delle conseguenze di una colonizzazione ideologica della società civile stessa, probabilmente immaginando che altri contrappesi istituzionali avrebbero impedito un’eccessiva ideologizzazione degli ambiti della vita pubblica destinati invece a rimanere neutrali. Per Montesquieu il grande nemico è il dispotismo, e tutto il suo sforzo intellettuale si concentra nella creazione di un sistema politico a compartimenti stagni dove ogni sfera di potere, autonoma, possa avere diritto di veto sulle altre, incoraggiando così il compromesso e mettendo a lato le politiche decisioniste ed accentratrici, viste come naturalmente esclusive.
Ma il dispotismo, lo vediamo, rientra dalla finestra, dal momento che la guerra rivoluzionaria della prassi gramsciana di colonizzazione ideologica di quei poteri intermedi mette le mani su quel potere che i liberali hanno eletto a supremo esegeta dello “spirito delle leggi”, ovvero quello giudiziario. In poche parole, è teoricamente vero che la tripartizione di Montesquieu fa sì che nessun potere possa essere sopraffatto dall’altro, ma è anche vero che il potere di “intrepretare” le leggi detiene un incredibile influenza sull’esecutivo, se tale potere diventa fazioso, ovvero qualora scendesse dall’Olimpo della neutralità per farsi militante. La “militanza” dei poteri è una prassi non presa in considerazione dai primi pensatori liberali, ai quali lo stesso concetto di “ideologia” era sconosciuto, ma che costituisce un vulnus riconosciuto del sistema politico attuale. Se dunque si individua il nocciolo centrale che può revocare o sabotare i provvedimenti dei governi, sarà necessario e sufficiente conquistarlo culturalmente per imporre la propria coloritura ideologica ad uno Stato concepito per essere neutrale. Occorre in sostanza inoculare un virus all’interno dei flussi di potere che poi vadano a intaccare metastaticamente i tre poteri, compreso il “deposito delle leggi” ovvero l’istituzione parlamentare stessa. Quando questo avviene, i poteri ricominciano ad aggregarsi, mettendo fine al sistema liberale stesso o mantenendolo soltanto in forma esteriore, svuotandolo del suo significato reale. Ancora una volta la storia sembra dar ragione al troppo sottovalutato Burke, il quale sosteneva che ogni rivoluzione, e quella del 1968 lo fu, apre la strada ad una tirannia, e sembra davvero che la tirannia di oggi sia tanto larvata tanto quanto lo fu la rivoluzione che ne sancì l’inizio.
Provò a risolvere il problema lo svizzero Benjamin Constant, il quale cercò di limitare i casi che potessero prevedere la messa in stato di accusa dei ministri, ed introducendo l’istituzione della Camera dei Pari con la funzione di giudicare i ministri stessi. Nel sistema politico teorizzato da Constant, in piena continuità ideale con Montesquieu, la Camera dei Pari, e di conseguenza il sistema giudiziario stesso aveva “un interesse parimenti distinto e da quello del popolo e da quello del governo, tuttavia unito da un altro interesse tanto a quello del governo quanto a quello del popolo” (Bedeschi). Secondo Constant, la Pairie (e di conseguenza il potere giudiziario) non avrebbe avuto alcun interesse nell’oppressione del popolo, poiché solo ad esso attingeva per dotarsi della sua stessa legittimità. Ma se questo può pure essere vero sul piano teorico, la realtà si dimostra irrimediabilmente più complicata, frustata com’è da quei lati irrimediabilmente dispotici dell’animo umano già evidenziati scetticamente da Hume. Emerge in particolare una drammatica sottovalutazione del preoccupato monito lanciato da Kant, il quale sosteneva, certamente in epoca pre-ideologica, che “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, cioè come egli si immagina il benessere degli altri uomini”. In poche parole, i padri della separazione dei poteri non concepivano in alcun modo la potenza con la quale la definizione estetica di felicità avrebbe potuto incidere “obliquamente”, investendo tutti e tre i poteri contemporaneamente, riportandoli e pluribus unum.
In altre parole, anche lo scetticismo degli avversari del Giusnaturalismo deve comunque piegarsi all’arbitrarietà umana; e laddove Gramsci la accetta, ossia l’afferma, ecco che il sistema delle “correnti di potere” si inceppa fino a diventare l’ombra di sé stesso. La legge, insomma, non può essere impersonale e neutrale, ma rimane figlia di un’epoca, del vissuto personale, dell’ideologia e della cultura di colui che la interpreta e se ne fa operatore. Un vulnus che, a giustificazione dei proto-liberali, era quasi impossibile anticipare in epoche pre-ideologiche, ma che rimane drammaticamente reale nella nostra attualità, nella quale governi e parlamenti possono essere facilmente esautorati dai magistrati, indipendentemente dalla verificabilità o meno delle loro accuse. La cosa è tanto più grave quanto più la mediatizzazione della politica e della vita civile in genere annulla, a danno dell’onorabilità, la presunzione d’innocenza di Verri e Beccaria, con esiti sconvolgenti nella politica mediatica e social dei tempi correnti. Ne consegue che sono, e saranno sempre più frequenti episodi come quelli a cui assistiamo in questi giorno, con l’emersione del complesso sistema di corruttela e lottizzazione delle procure (in particolare quella di Roma) da parte di giudici che, teoricamente indipendenti, sono in realtà assai vulnerabili al correntismo di partito, e dunque alle ideologie circolanti (e dominanti). Il verminaio che mischia corruzione e lottizzazione politica dietro i vetri dei palazzi della magistratura romana, dove l’ex sottosegretario renziano Luca Lotti sembra assumere sempre di più il ruolo di regista delle nomine al Consiglio Superiore della Magistratura, assieme al magistrato Luca Palamara, ai consiglieri del CSM Gianluigi Morlini e Luigi Spina, con tutto un vaso parterre di uomini politici, tra i quali spiccherebbe il parlamentare (e giudice) del Partito Democratico Cosimo Ferri.
Un contesto che prova da solo, nella lotta all’ultimo sangue tra i cascami dell’ideologia post-marxista e le ormai svuotate istituzioni liberali, la condanna che la storia ha pronunciato su entrambe le parti in causa, esponendo, al netto della stessa onestà (che può esserci o non esserci, così come la colpevolezza, non supposta fino al terzo grado di giudizio), l’estrema contraddittorietà del sistema politico liberale, che qui si pone, nonostante lo scetticismo di Hume verso l’uomo, come decisamente più adatto a macchine che non a uomini con tutte le loro cupidigie ed i loro difetti. Cupidigie e difetti che non portano la società a temprarsi e rafforzarsi nella “insocievole socievolezza” teorizzata da Kant, ma che invece la degradano erodendo le fondamenta stesse di quello Stato che testimonia il fallimento dell’assioma liberale stesso: uno Stato cioè che non assolve né la sua funzione negativa e conservatrice di tutela delle libertà individuali (giacchè una magistratura arrogante ed inquisitoria abolisce la libertà personale, o almeno la minaccia), né la sua funzione di rimanere minimo, come tradizione liberale vorrebbe. Anzi, lo strapotere delle magistrature, ancorché innervate profondamente di liberalismo economico, si traduce giocoforza in aumento smisurato di norme che, intaccando sempre più profondamente la libertà individuale, gettano nel terrore l’economista e l’imprenditore, i quali temono che ogni loro azzardo possa ritorcerglisi contro in caso di ostilità dell’autorità giudiziaria. Emerge dunque la preoccupazione esplicitata da Von Humboldt e Mirabeau, dove lo Stato esce dalla condizione di male necessario (notwendiges Uebel) per ritornare, tramite la proliferazione di leggi non necessarie, al regime dispotico. La nuova “coltre di una legislazione uniforme” (Bedeschi) avanza come temuto da Alexis de Tocqueville, strangolando lo stato democratico e riportandolo all’epoca delle tirannie, questa volta non più assolutistico-religiose ma burocratico-giudiziarie.
Siamo di fronte, in buona sostanza, al divergere dell’idea di Liberalismo da quella di Democrazia. Una distinzione ben nota ai padri del liberalismo dottrinario, da Guizot a Royer-Collard, da Barante a Rémusat, ma poco ai contemporanei. Uno stadio storico nel quale ciò che rimane del marxismo evidenzia, come una variante impazzita, le magagne del sistema che gli ha permesso di perpetuarsi oltre il limite di sopravvivenza, mentre la costituzione liberal-democratica stessa evidenzia, nel suo vulnerabile silenzio le prassi della guerra rivoluzionaria alle istituzioni ed al popolo che tramite essa vorrebbero dominare. La crisi della liberal-democrazia dunque, che però non significa né la crisi del Liberalismo puro né quella della Democrazia stessa (intesa in forma diretta), che paiono evolvere l’uno nella direzione elitaria ed elitista, e l’altra nella forma populista amata già da Jean-Jacques Rousseau. La sfida di un ritorno ad una Costituzione organica, sarà da vedere se in senso hegeliano o piuttosto in senso “populista” rousseauiano, rappresenterà perciò la sfida principale con la quale si cimenteranno i costituzionalisti, i magistrati e gli uomini di Stato identitari figli del populismo di oggi, che dovranno decidere in quale schieramento convergere e portare egemonia. Una sfida che non potrà essere vinta senza l’accurato studio, oltre che del liberalismo e del Diritto stessi, anche dell’arbitrarietà stessa del concetto di libertà, ovvero, sempre riprendendo Kant, ridefinendo da cima a fondo i caratteri estetici che la delimitano.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.