Salafismo, storia di un risorgimento mancato

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Il termine “salafismo” è ancora oggi avvolto in un alone di mistero, quando ad usarlo è qualcuno appartenente all’ecumene occidentale. Con uno schema di interpretazione politico ed ideologico tipicamente europeo, si ritiene che la parola “salafismo” altro non sia che un sinonimo di islamista radicale deciso a combattere la Jihad armata. L’associazione di questi concetti, anche se non sempre errata, è fuorviante, poiché presuppone che il salafismo rappresenti l’ala estremista e violenta di una massa che, evidentemente non sarebbe tale, quanto piuttosto sarebbe attestata su posizioni liberali o moderate. In realtà, come già ampiamente dimostrato, il cosiddetto “liberalismo islamico” raggruppa un numero assai esiguo di persone, rimanendo schiacciato da altre scuole dottrinarie più forti, ma non necessariamente estremiste. Quando si parla di Islam infatti, ha poco senso appellarsi al radicalismo o meno delle tesi proposte dalle varie madhāhib (scuole giuridiche), in quanto tali scuole non rispondono al significato occidentale di “confessione”, quanto piuttosto di “metro per misurare le cose”, o scuola interpretativa. Il corpus della sapienza coranica infatti non è in discussione, né per quelli che l’Occidente chiama “musulmani liberali”, né per le varie forme dell’estremismo. Piuttosto, si intende, la distinzione si può tracciare tra coloro che seguono i dettami dell’Islam in maniera integrale, ovvero gli integralisti, e quelli che invece accettano compromessi con la modernità in quanto riconoscono il cambiamento di alcuni costumi, e dunque la necessità di adattare le leggi della comunità (ma non quelle della religione) al nuovo corso dei tempi. Sarà opportuno sottolineare che in ambito islamico le leggi della comunità sono leggi accessorie che, secondo il Corano, non possono in alcun modo sostituire la scrittura, ma possono tuttavia rispondere alle esigenze poste in essere dalla modernità, sulla base di un’ispirazione e di un’interpretazione del Corano stesso. Ogni dissociazione da questo concetto equivale, per i musulmani, a porre un secondo baricentro accanto ad Allah, configurando il peggiore tra i crimini e la peggiore tra le bestemmie, ovvero l’associazione di qualcuno o qualcos’altro (i diritti, la nazione, la scienza ecc) ad Allah (Shirk), violando così il monoteismo (tawḥīd) e compiendo un inconsapevole atto di idolatria.
Chiunque esca da questo schema è, secondo tutte le scuole religiose musulmane, fuori dall’Islam. Come già illustrato nell’articolo “Jihād, genealogia di un fenomeno complesso” (al quale rimandiamo per una comprensione più ampia della storia del fenomeno estremista islamico), il radicalismo letteralista è un fenomeno ben più antico del salafismo, movimento di origini ottocentesche, e affonda le radici nella notte dei tempi dell’Islam, già pochi anni dopo la morte del Profeta. Il conservatorismo radicale che intende mantenere la religione islamica vicina ai suoi fondamenti muhammadiani è un fenomeno tanto ricorrente, nella storia islamica, quanto ricorrenti sono, nella storia cristiana, i movimenti (ereticali e non), che propugnano un ritorno alla povertà evangelica delle origini. Tra questi movimenti il wahabismo saudita ha certamente un ruolo centrale ma, come vedremo, il salafismo, corrente che oggi si dice vada per la maggiore nel mondo islamico, ha origini differenti e talvolta antitetiche. Per capire l’humus del salafismo dobbiamo spostarci temporalmente nel contesto nordafricano della prima metà dell’ottocento, agli albori del fenomeno coloniale europeo.
All’inizio dell’Ottocento, infatti, all’indomani della Restaurazione europea, la campagna d’Egitto lanciata da Napoleone, per quanto finita in un sostanziale disastro, aveva evidenziato il rischio, mortale per l’Inghilterra, di come una presa di controllo di una potenza europea (in particolare della Francia) dello scenario nordafricano, avrebbe potuto significare, tramite il Mar Rosso, e più tardi con l’apertura di Suez, una minaccia molto significativa alle vie britanniche per l’India. Cacciati dalle Americhe a causa delle vittorie dei movimenti indipendentisti delle colonie, gli europei volgevano la loro attenzione verso l’Africa. L’incremento dei commerci lungo le linee di costa, dove era possibile acquistare spezie, avorio, ebanisteria e schiavi, gettò progressivamente tra le fauci della depressione economica le antichissime vie carovaniere che dal Sahel subsahariano collegavano, attraverso il grande Sahara, i mercati del sud con la costa nordafricana del Mediterraneo, e da lì il Maghreb all’Europa. Le nuove vie marittime, più sicure e veloci, abbattevano i costi per i mercanti europei, bypassando completamente gli intermediari arabi ed ottomani dell’Africa Settentrionale, che attraverso la vigilanza sulle oasi (debitamente retribuita) delle popolazioni tuareg ed imazighen, avevano beneficiato per secoli del monopolio dei commerci tra Africa Nera ed Europa. Il progressivo depauperamento, e successivo abbandono delle vie che conducevano al Mediterraneo, causò una crisi generalizzata dei protettorati ottomani del Maghreb e dell’Egitto, mentre il Marocco continuò ad avere una certa prosperità, proprio in qualità di base di scalo per le rotte che circumnavigavano l’Africa. Nel clima di progressivo impoverimento, il controllo politico di Istanbul sulle province nordafricane andrò progressivamente indebolendosi, avvantaggiando l’accentramento di molte funzioni di potere sui governatori locali, i vari Bey che governavano per conto della Sublime Porta.
In Nordafrica, dove nel frattempo i contatti con le potenze europee, specialmente con la Francia innervata di illuminismo, si facevano sempre più stretti, il processo di riorganizzazione istituzionale a seguito della crisi delle via carovaniere investì non soltanto l’economia (con una serie di liberalizzazioni e di concessioni semi-costituzionali) ma anche il campo ideologico e politico.
Il processo di modernizzazione del Nordafrica ottocentesco, fenomeno prettamente autoctono, denominato Nahda (risorgimento), fu una vicenda essenzialmente legata a doppio filo alla religione islamica. L’importazione di stilemi illuministi, financo massonici e nazionalisti, nelle terre del Maghreb ed in Egitto, lungi dal causare un progressivo inaridimento della fede religiosa, come temevano i tradizionalisti, importarono piuttosto le prassi modernizzatrici della nuova Francia razionalista. Progressivamente i Bey ed i bassà maghrebini cominciarono a decostruire gli ordinamenti feudali ereditati da Istanbul, senza però intaccare il nocciolo della sapienza e degli insegnamenti coranici, visti come elemento essenziale del nuovo nazionalismo che cercava di opporsi alla penetrazione coloniale europea. L’antica sapienza filosofica islamica veniva così riattualizzata, ponendo al servizio di essa, e non viceversa, le modernizzazioni politiche e tecnologiche importate dall’Europa. La stessa classe intellettuale nordafricana, in particolare i rampolli dei dignitari dell’alta società, viaggiarono a lungo in Europa, specialmente in Francia, e si fecero un’idea, ancorché incompleta, delle riforme di cui necessitavano i paesi d’origine.
Si trattava, dunque, di porre la modernità al servizio dell’Islam, e non viceversa, come invece facevano gli Europei. Furono Jamal al-Dinal–Afghānī, Muhammad ʿAbduh prima e Muḥammad Rashīd Riḍā, poi, a capitanare quel processo di riforma politica (islah) del mondo islamico, in particolare riguardo per quello Mediterraneo. Per questi tre teorici, mistici ed uomini politici, la modernità evocata dall’Occidente non era di per sé satanica, come invece pensavano molti vetero-tradizionalisti dell’epoca, ma era invece un naturale processo storico, che doveva però essere governato dall’Islam, per evitare che potesse diventare uno strumento di dannazione e di sottomissione dei popoli musulmani. Questo nuovo modo di intendere la politica, che si contrapponeva sia alle potenze colonialiste sia ai vecchi poteri feudali di matrice ottomana ma anche tribale e beduina, diede origine alla cosiddetta scuola politica della Salafiyya (dall’arabo salaf al-ṣaliḥīn, ovvero“i pii antenati”, in riferimento ai primi compagni del Profeta), della quale i tre teorici di cui sopra sono ancora oggi considerati i principali esponenti. Non mancarono, in questo senso, attriti con le vecchie èlite musulmane, che arrivarono ad accusare, ad esempio, al-Afghānī, noto massone iniziato in Francia, del crimine di “razionalismo”. I primi salafiti, inoltre, si conquistarono rapidamente l’appoggio dei signori maghrebini, dal momento che cominciarono a sottolineare l’assoluta infondatezza coranica di concetti quali quello di “impero” e di “califfato”, indebolendo dunque ideologicamente e politicamente la posizione del lontano sultano turco. A fronte degli interessi dei sultani e delle classi dirigenti feudali, i salafiti cominciarono a teorizzare, mutuandolo dagli ideali rivoluzionari francesi, il concetto interesse pubblico (maslaha), arrivando ad influenzare, come i loro colleghi risorgimentalisti europei, le primissime concessioni costituzionali lungo la sponda sud del Mediterraneo. Non è un caso se, proprio in questo periodo, contemporaneamente all’unità d’Italia, è il bey di Tunisi, l’husaynita Sadiq Bey, a concedere la prima carta costituzionale della storia islamica, garantendo medesimi diritti a cittadini musulmani e non musulmani, mentre era di poco prima la fondazione, sempre in Tunisia, del Politecnico del Bardo, che si distinse principalmente per gli studi di carattere militare. L’esigenza di difesa dalla sempre più minacciosa ed aggressiva penetrazione coloniale europea, in particolare francese, fece sì che i patrioti, in grandissima maggioranza egemonizzati dalla Salafiyya, si dedicassero alla difesa dei rispettivi Paesi, applicandosi agli studi militari e tecnici, piuttosto che alla giurisprudenza ed alla teologia filosofica, come invece accadeva nei secoli precedenti. In questo brodo di coltura, i primi salafiti, che non erano jihadisti ma esclusivamente dei neoconservatori anti-colonialisti, riuscirono a penetrare nei gangli di tutte le amministrazioni dei morenti protettorati osmanli dell’Africa Settentrionale, fino a raggiungerne non di rado gli apici, come nel caso dei khedivè d’Egitto, rimasti al potere al Cairo fino agli anni cinquanta del secolo scorso. I salafiti dell’ottocento e della prima metà del Novecento si trovarono dunque ad essere e ad agire in un contesto quasi esclusivamente politico, più che religioso in senso stretto, qualificandosi precipuamente come forze patriottiche della Ummah islamica, piuttosto che come gruppi estremistici dediti alla violenza settaria. Il loro atteggiamento riformatore andò invece a urtare violentemente contro la scuola giuridica dei wahabiti, diffusa nella penisola arabica, che rispondeva (e tutt’ora risponde) ai sovrani tribali della famiglia Saud. Il madhhab fondato da Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb al-Tamīmī al-Najdī si rivelò sempre ostile sia ai salafiti delle origini sia, più in generale, alle innovazione “sataniche” della Nahda egiziana e maghrebina.
Fu proprio il più tardo dei tre padri della Salafiyya, ovvero Rashīd Riḍā ad ispirare quello che fu il moderno fondamentalismo. Nell’Egitto de facto colonizzato dalla Gran Bretagna della fine degli anni ’20, i lettori di Riḍā cominciarono ad abbandonare sempre più le accezioni “risorgimentali” del primo salafismo (in particolare di Abduh), per accentuare le note religiose conservatrici. L’appello ai valori dell’Islam, infatti, permetteva di superare gli artificiali confini stesi dagli europei per raggruppare ideologicamente tutti i musulmani contro i colonizzatori inglesi, francesi, italiani ed olandesi. Si fece promotore di questo processo l’egiziano Hasan al-Banna, che fondò nel 1928, ad Ismailyya, sul canale di Suez, la prima cellula dell’organizzazione salafita denominata Jamaʿat al-Iḫwān al-muslimīn, noti in Europa con l’appellativo di “FratelliMusulmani”. Al-Banna, fedele all’approccio della tigre da cavalcare, strutturò la Fratellanza sul modello dei moderni partiti politici europei, distretti locali affidati a capi-sezione, ed uffici con il compito di tesoreria, propaganda, assistenza sociale ed istruzione. Il consenso, che trovò terra fertile nel forte risentimento contro le potenze colonizzatrici, arrivò folgorante e la Fratellanza riuscì ad espandersi ampiamente nella regioni nordafricane e mediorientali, riappacificandosi anche con i vecchi nemici della wahabyya saudita. Quello che era nato come un generico movimento di emancipazione e di risveglio patriottico e identitario, assumeva definitivamente i sinistri connotati fondamentalisti ed anti-europei che saranno poi il cavallo di battaglia del moderno salafismo, profondamente influenzato dai ricchi stati wahabiti della penisola arabica che, come abbiamo visto, poco c’entravano con le origini, ideologiche e geografiche, della Salafiyya storica. Il processo andò progressivamente avanti anche dopo l’abbandono dei paesi islamici delle nazioni colonizzatrici, sia per il sopraggiungere dello stato di Israele sulle coste della Palestina, sia per la penetrazione, all’interno delle società islamiche, di abitudini e costumi di importazione occidentale, che andavano a minare nel profondo l’ortodossia coranica e le leggi shariatiche. L’emersione di forze laicizzanti, come il kemalismo prima, ed il socialismo baathista (in Egitto, Siria ed Iraq) poi, che relegavano la religione in posizioni sempre più subalterne rispetto allo Stato laicizzato, non aiutarono certo a smorzare i toni oltranzisti e sempre più violenti dei salafiti, che nel frattempo passavano sempre più spesso alle vie di fatto della violenza e del terrorismo. Con l’affermazione, infine, dello Stato Islamico del Daesh, viene da chiedersi se oggi, nel 2019, abbia ancora senso parlare di salafismo, a fronte di fenomeni del tutto nuovi che potrebbero essere sintetizzati meglio sotto il termine neo-wahabismo o di stragismo anti-occidentale tout-court. Certamente, la complessa vicenda della Nahda fornisce molte chiavi di lettura al politico europeo, tra le quali quella secondo la quale non esistono contatti indolori di civiltà. La seconda, forse più profonda, ci dice invece che non è possibile giudicare il mondo musulmano con la faciloneria alla quale ancora assistiamo, molte volte, anche e soprattutto in ambito identitario e patriottico. La regione nordafricana, oggi, si configura come vitale per la sicurezza ed il benessere dei popoli d’Europa; approfondirne la storia, le vicende, le tragedie, può sicuramente contribuire ad una maggior comprensione tra i popoli ed alleanze meno politicamente corrette, magari, ma certamente più produttive per entrambi gli attori dei patti.
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