Ritrovare un’identità tra Herder e Rousseau

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
“La rivoluzione di un popolo di ricca spiritualità quale noi abbiamo visto effettuarsi ai nostri giorni, può riuscire o fallire; può essere talmente colma di miseria e crudeltà che un uomo benpensante, anche se potesse sperare d’intraprenderla con successo una seconda volta, non si deciderebbe di tentare l’esperimento a tal prezzo: eppure questa rivoluzione trova negli spiriti di tutti gli spettatori (non coinvolti in questo gioco) una partecipazione d’aspirazioni che rasenta l’entusiasmo e che nel suo stesso manifestarsi non andava disgiunta da pericolo, e che per conseguenza non può avere altra causa se non in una disposizione morale del genere umano.”
Così Immanuel Kant, nel 1798, al termine di numerosi travagli personali, era giunto alla conclusione che la Rivoluzione Francese, pur tra mille atrocità e mille iniquità, costituisse pur sempre un momento storico decisivo della storia umana. Lo scoppio della Rivoluzione aveva costituito, per il filosofo di Königsberg, un durissimo banco di prova per il suo sistema filosofico. A differenza dei suoi colleghi britannici, uno su tutti John Locke, il pensatore prussiano aveva sempre categoricamente escluso la liceità di qualsiasi ribellione al potere costituito, per quanto ingiusto e dispotico potesse essere. Ci troviamo di fronte indubitabilmente ad un elemento poco conosciuto e poco approfondito del filosofo illuminista. Pur celebrando gli inevitabili progressi sociali che essa portava con sé, Kant rimarcò più volte come il Terrore, ed in particolare l’esecuzione di re Luigi XVI, fossero crimini, oltre che orribili, inespiabili. La morte del re rappresentava il completo rovesciamento del principio della sovranità, in quanto il Popolo decapitava lo stesso Logos politico dal quale essa promanava, senza tuttavia sostituirgli alcunchè. Il diritto di resistenza teorizzato da altri giusnaturalisti, per cui “alla forza è possibile resistere solo con la forza” non convinse mai il filosofo tedesco. Per Kant, nessuno all’infuori del Sovrano poteva ritenersi interprete del contratto sociale originario steso a beneficio della libertà degli uomini. In un orizzonte, quello illuminista, già flagellato dalla morte di Dio, Kant non fa altro che arrendersi all’evidenza: in un’eventuale disputa tra popolo e Capo dello Stato, nessuno potrebbe giungere a stabilire quale sarebbe la verità. Mancando un arbitro superiore ad entrambi, appena il Sovrano scendesse al livello del popolo che lo contesta, ne verrebbe meno il principio verticale della sovranità, portando le istituzioni umane ad annegare nel relativismo. Lo stesso diritto del popolo a contestare le istituzioni sancirebbe irrimediabilmente una negazione, una bestemmia del principio di Sovranità. Kant afferma in compenso l’importanza della libertà di parola e di pensiero: il Sovrano, se la negasse, si priverebbe infatti di consigli preziosi, nonostante gli provengano sotto la forma di una protesta o di un lamento. E’ il coraggio di usare la propria testa per proporre miglioramenti all’autorità (che rimane comunque esclusiva sovrana), l’illuminismo a cui chiama Kant. L’osmosi tra popolo, sempre chiamato all’obbedienza, e Sovrano, si qualifica dunque come vero strumento al servizio del buongoverno. Solo l’esercizio della libertà di parola, in particolare da parte degli studiosi e dei sapienti, può influenzare per capillarità il potere regnante, che pur inappellabile rimane profondamente umano e fallibile. L’accenno in tal senso da parte di Kant, si trova all’interno della sua opera “Risposta alla domanda:Che cos’è l’Illuminismo?” e sembra quasi anticipare le teorie gramsciane sull’egemonia culturale, evidentemente più antiche di quanto non credessimo. Il popolo, dunque, per il filosofo illuminista, non può che avere il ruolo di suggeritore, sia occulto sia manifesto, mentre il moto del cambiamento e delle riforme è e deve rimanere necessariamente verticale, per evitare la dissoluzione dello Stato nel relativismo.
Anche se vi furono già alcune polemiche in tal senso, il Terrore dei Giacobini, che oggi viene ci viene dipinto, a causa anche di un lungo e superficiale filone controculturale, come uno degli aspetti decisivi nella fondazione ideale dell’attuale regime liberaldemocratico, fu in realtà una delle principali nemesi di coloro che poi cominceranno a chiamarsi liberali. Proprio l’esperienza del Terrore infatti contribuirà grandemente a squalificare i Giacobini, ossia i populisti dell’epoca, portando quasi tutte le migliori menti del tempo ad escogitare sistemi in grado di imbrigliare le masse, pur proteggendole dal dispotismo dei singoli autocrati. Rousseau fu, se vogliamo, il grande sconfitto della Rivoluzione. L’epoca di caotica ‘democrazia popolare’ che si instaurò con l’ascesa di Robespierre lasciò infatti rapidamente il campo a sistemi politici sempre più moderati fino al compimento finale della sublimazione dell’esperienza rivoluzionaria all’interno del disegno neo-imperiale bonapartista. L’idea del “popolo suddito solo di sé stesso” cozzava irrimediabilmente con la visione radicalmente verticistica di Kant, e la teorizzazione di un sistema rappresentativo, nel quale il volere del popolo fosse filtrato da un’èlite elettiva, piuttosto che da nessuno, fu attuata contro ai Giacobini, piuttosto che a favore di essi. La lunga storia politica liberale, lungi dall’essere sinonima di “storia dell’Illuminismo”, fu in gran parte una lotta contro i princìpi della democrazia diretta giacobina piuttosto che contro quelli del dispotismo. E’ allora che nasce la concezione di rappresentatività; e se prima, con Montesquieu, la preoccupazione precipua era che il potere frenasse il potere stesso, dopo il trauma rivoluzionario il patema più angosciante per gli illuministi liberali fu quello di trovare un modo per frenare lo stesso Demos, la cui ferocia era appena stata percepita nell’esperienza rivoluzionaria.
Nell’esperienza rivoluzionaria dunque, come nella sua storia, emergono molteplici temi fino da oggi poco approfonditi nel panorama controculturale. Il populismo di oggi rappresenta in realtà quel ‘gioco’, già percepito da J.Stuart Mill, per il quale Democrazia e Liberalismo non sarebbero mai potuti essere concetti esattamente coincidenti; e se pure è vero che il filone dottrinario e liberale di un Kant e di un Guizot si allontana con sdegno dal totalitarismo delle masse, è invece vero che Rousseau ed i suoi eredi montagnardi ne faranno un elemento centrale del loro pensare politico. Sgomberato l’orizzonte da Dio, la lotta si sposta dunque all’interno degli schieramenti di coloro che hanno rinunciato ad esso: e se Kant taglia il nodo gordiano con il proverbiale colpo di spada alessandrino del “bisogna obbedire”, senza menzionare il Principio Trascendente per cui dovremmo farlo, i Giacobini gettano almeno le basi per la riscoperta, ancorché nichilistica, di una verità nascosta all’interno del corpo popolare stesso, alla quale obbedire più nel nome di un’essenza ontologica che non nel nome dell’astratto principio della Libertà. Il Popolo obbedisce a sé stesso poiché è popolo, e non poiché è genericamente “libero”, dal momento che chiunque detenga il potere nelle sue mani, sia esso un singolo o un’entità collettiva, è già ovviamente libero. E’ dunque, il populismo, il figlio prediletto del giacobinismo e del terrore rivoluzionario, e non il suo principale avversario, come oggi credono invece molti avversari della liberaldemocrazia. Ma se la Rivoluzione compie innegabilmente la svolta storica di trasformarci da sudditi in cittadini, quale sarà la vera Via Identitaria di approccio ai diritti, alla cittadinanza ed alla stessa Identità?
Le immagini dell’occupazione del Pantheon da parte di una folla di sans-papiers, ossia di clandestini, di origine africana, aprono una grande finestra di riflessione su questo tema. Il Pantheon, luogo centrale dell’identità francese, dove peraltro riposano molti padri ideologici della Rivoluzione Francese (tra i quali Rousseau e Voltaire), pur essendo una chiesa è principalmente un santuario laico della République, come testimoniato anche dal monumento alla Convenzione Nazionale ai piedi del quale si sono radunati gli immigrati illegali. La grande sfida dei propugnatori dell’inclusione è, e lo sappiamo da molte loro dichiarazioni, la trasmissione della fiaccola della libertà a persone come quelle che hanno occupato il Pantheon, totalmente prive di qualsivoglia concezione di libertà e di divisione dei poteri per come in Occidente la conosciamo. Non è una novità, infatti, l’incompatibilità tra la Shari’a e le costituzioni europee. Ai piedi del monumento alla Convenzione Nazionale e sulle tombe dei pensatori illuministi si assiste dunque ad una scena epocale, la personificazione, sotto la forma di torma anonima, dell’errore storico. Se la marea montante di inassimilabilità è realmente destinata a travolgere l’Europa, come possono pensare gli aedi dell’integrazione e della libertà, che i nuovi arrivati abbandonino Maometto per Popper e per Kant? Quale narcisismo li avviluppa se si credono capaci di decapitare alla radice tradizioni così antiche da quei corpi che sono nati loro in seno? Ne consegue che la Francia razionalista, la comunità dei suoi cittadini, commettono un gravissimo errore, dal momento che non riescono a venire a capo della grande contraddizione liberale. Ideologicamente parlando, il proto-liberale Kant ed il suo connazionale, proto-nazionalista, Johann Gottfried Herder, si esprimono in maniera quasi totalmente analoga. “Nessuno – sostiene Kant – mi può costringere ad essere felice a suo modo, ovvero come egli si immagina il benessere degli altri uomini, ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona”; mentre Herder andrà a sostenere praticamente il medesimo concetto, solo applicandolo alle Nazioni. Secondo il filosofo di Mohrungen, l’Illuminismo contraddice sé stesso nel momento in cui si situa come fine ultimo di tutta l’umanità. Il Cristianesimo, tanto vituperato da alcuni interessati cultori dell’identità e della spiritualità, situa i suoi parametri di valutazione al di là della terra, dove le sostanze sono puramente spirituali, slegate dal sangue materiale, ma che dire degli ingiustificabili postulati della nostra realtà terrena, dove invece lingua, sangue e culture sussistono in maniera tangibile? La ragione, per Herder, è sì un principio assolutamente cardinale nell’agire umano, e tale deve rimanere, ma com’è possibile liberare la ragione dalle catene dell’astratto con le quali gli illuministi la segregano, se non si studia il vero rapporto che lega la metafisica ragionata e astratta con la realtà fattuale del sangue e della terra? Se l’uomo pensa, ed è assodato che ciò avvenga, non pensa forse egli attraverso un dialogo con sé medesimo costituito dall’uso del linguaggio? Ma il linguaggio non è forse un prodotto squisitamente culturale, etnico, figlio di un determinato humus incancellabile, che ha come suprema garanzia di immutabilità proprio quella di situarsi nel piano inattaccabile del passato? Ne consegue che dunque che Francesi, Tedeschi, Inglesi, Cinesi, Africani non possono praticare la ragione alla stessa maniera, né come popoli né come individui. Sono dunque false entrambe le proposizioni: sia quella di chi vuole portarci alla libertà da singoli sia quella di chi vuole portarci alla libertà da atomi fusi in una generica collettività superiore. Si badi bene, comunque, che ciò non cancella assolutamente la validità del concetto di “popolo suddito solo di sé stesso”, semmai lo conferma, dal momento che esso soggiace alle leggi invisibili dell’identità; ci si limita invece a restringere il campo dalla collettività ecumenica dell’Humanité al concetto più ristretto di Volk.
La Filosofia dell’Identità, che è giacobina e populista nel senso provocatorio del termine, riscopre palingeneticamente nel bagno corrosivo del nichilismo, l’essenza stessa del fenomeno della ragione, ovvero l’Identità. E’ la Ragione dunque ad essere figlia dell’Identità, dal momento che essa per manifestarsi non può che adoperare strumenti fabbricati dall’entità pre-istorica e pre-umana che è l’Identità stessa, mentre è falso il contrario, ovvero la tesi secondo la quale sarebbe l’Identità ad essere una sovrastruttura sociale nata dall’uso perverso e alienante della Ragione. Ne consegue che la Ragione è solo l’ultimo prodotto di Linguaggio e Identità, ovvero essa si enuncia come figlia del Linguaggio e nipote dell’Identità. Coloro che sovvertono il diagramma appaiono in realtà comici come coloro che sostenessero che è il legno ad essere figlio del mobilio e degli attrezzi del falegname, per il semplice fatto che essi hanno conosciuto prima questi di quello. E’ dunque l’universalismo a condannare gli antichi illuministi. Essi si schierano contro la Natura delle cose, nonché contro le loro stesse tesi, imponendo un’idea di felicità a chi, per differenze ontologiche innegabili, più che per mera volontà di far resistenza, non può assimilarla. Le premesse liberali della Rivoluzione Francese dunque rinnegano sé stesse non nell’esperienza del Terrore, dove anzi le logiche della forza vengono confermate (tanti sono più forti di pochi), quanto piuttosto nella pretesa, ben più ideologica ed utopistica, che l’idea di Libertà propagandata dai Lumi sia non tanto desiderabile, quanto assimilabile da tutti i popoli della terra. La Libertà dunque non consiste, secondo la Filosofia dell’Identità, nel vivere secondo Ragione, ma nel vivere secondo la propria Ragione, laddove essa si qualifica logicamente come prodotto identitario di popolo e non come semplice bagaglio di conoscenze empiriche ereditate dal quotidiano vissuto personale.
Proprio durante l’esperienza rivoluzionaria francese nacque una delle più celebri società filantropiche della storia, destinate ad avere un peso notevole nell’abolizione della tratta degli schiavi nelle colonie francesi: la Société des amis des Noirs. La Società degli Amici dei Neri era un’evidente figlia del clima emancipatore della rivoluzione, e si proponeva, sull’onda della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, di liberare anche quegli uomini che si trovavano in catene come schiavi, non curandosi del fatto che per essi la schiavitù fosse un’istituzione lecita da millenni. Non deve sorprendere il lettore, tra le altre cose, che uno dei presidenti di tale associazione fu proprio quel Gilbert du Motier de La Fayette che fu anche il primo autore della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo in seno alla Francia rivoluzionaria, né che i Girondini fossero in grande maggioranza nei confronti dei Montagnardi all’interno della Società. Gli Amici dei Neri si diedero come simbolo un piccolo cameo, all’interno del quale un uomo in catene, nell’atto quasi di implorare, era sovrastato dalla scritta: Ne suis je pas un homme? Un frère? (Non sono forse un uomo? Un fratello?). La domanda si poneva ovviamente in maniera retorica, ed oltre a recare già quel presupposto colpevolizzante che diventerà poi una costante nei tempi a venire, mostrava già tutte le falle che avrebbero fatto da presupposto alla disgregazione della Francia attuale, dove i sedicenti valori condivisi si scontrano con la reciproca inapplicabilità ai diversi gruppi etnici. Ecco dunque che l’incongruenza che sta alla base del fiasco sociologico della Francia moderna non emerge tanto nel mero fatto di essere democratica ed egualitaria, quanto nel fatto di non darsi confini, culturali e di sangue prima ancora che di Stato ed istituzione (del resto questi sono figli di quelli). Gli illuministi francesi peccarono di superbia quando, credendosi araldi della Ragione e della fratellanza, credettero di concepire un metro di giudizio e di felicità valido per tutti gli uomini della Terra che superasse gli egoismi che portano agli autoritarismi. Essi, ponendo la Ragione a monte del Linguaggio, non fecero altro che mettere al centro della politica quell’elemento totalmente solipsistico che vede l’uomo cogitare da solo. Del resto, se neghiamo il rapporto di paternità del Linguaggio sulla Ragione, è ovvio che essa per sussistere non ha alcun bisogno del linguaggio. E che cos’è il Linguaggio se non rapporto sociale, rapporto tribale e di Volksgemeinschaft tra coloro che parlano secondo i medesimi codici? La Ragione è in poche parole individualistica, mentre il Linguaggio (e sua madre Identità) sono elementi di condivisione e dialogo. Ne consegue che l’uomo che mette al centro la sola Raison, slegando il rapporto ereditario verso il Linguaggio, si qualifica come monade auto-referenziale e silenziosa, incapace di rapportarsi agli altri uomini, siano essi stranieri o consanguinei: l’essenza anti-comunitaria del pensiero ecumenico della Rivoluzione Francese non risiede dunque nell’egualitarismo, che anzi può essere facilmente esplorato proprio in senso comunitario, quanto nella collocazione centrale riservata alla Ragione a scapito dei contesti che l’hanno generata. Il culto della Ragione, che è sì elemento centrale dell’esistenza ma che non è l’unico, e soprattutto non è autosufficiente, trasforma l’uomo in monade incapace di tras-porre un qualsivoglia ordine teorico verso il piano del politico, che del resto è già stato fatto a pezzi dall’individualismo. Dietro a questo tragicomico equivoco sta la grande tragedia della Francia odierna, talmente razionale da rendere inconcepibile un qualsiasi vissuto comunitario. E del resto non è forse un termine dispregiativo, nella politologia francese, quel communautarisme che invece in Italia ed in Germania si è sempre caricato di ben più positivi significati? Con esso, anzi, persino i nazionalisti ed i sedicenti identitari accusano le comunità immigrate di non volersi integrare nel grande disegno, tanto condiviso quanto obbligatorio, della République. Non può stare insieme, in poche parole, una comunità dai presupposti individualistici, ossia esclusivamente razionali. Lo stesso “benessere”, la stessa “utilità”, ossia quei minimi comuni denominatori che dovevano far sparire, secondo i liberali e gli illuministi, ogni criterio divisivo di altro genere (religioni, nazionalità, lingue etc.) perdono ogni alone di universalità e sacralità mobilitante, dal momento che se noi mettiamo al centro il nostro mero utile, la nostra mera salvezza carnale, e nominiamo lo Stato supremo custode di questi beni, tutti quanti diventiamo ipso facto inabili a difenderlo, e dunque a difendere gli stessi parametri liberali e pseudo-egualitari che sarebbero il sommo bene per noi, mentre in realtà il sommo bene è diventato la mera salvezza carnale, sulla base della precedente necessità di trovare un criterio razionale che ci accomuni all’intera umanità.
La tragedia della Rivoluzione Francese non si rispecchia dunque nella sua matrice egualitaria, quanto piuttosto essa si manifesta nel suo forzato divorzio tra Identità e Ragione, tra gli elementi imponderabili che dettano il solfeggio al pensare razionale e la Ragione stessa. Per questo motivo, una volta compromesso il legame organico tra Identità, Linguaggio e Ragione, le comunità non rimangono più unite, esattamente come una melodia perde di senso se gli strumenti non suonano in accordo con il metronomo e la partitura. La cacofonìa è essenzialmente la divisione dei tre ambiti di Identità, Linguaggio e Ragione, pretendendo che quest’ultima sussista senza gli altri due; ma eguale cacofonìa e disastri si manifesterebbero (e si sono manifestati) laddove anche uno degli altri due concetti è stato imposto come monoteismo politico. La riscoperta, ma soprattutto la pratica di un’organicità e dell’inquadramento della corretta successione tradizionale (in senso ereditario) di questi tre elementi, è l’unico che la Francia e l’Europa tutta abbiano non solo per sopravvivere ma anche per siglare una pace con l’evento più epocale della propria storia, sanando finalmente la ferita della Rivoluzione in una nuova sintesi di dialettica storica, nella quale i reciproci meriti e soprattutto le reciproche nature, possano riconoscersi l’una nell’altra.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.