Quel Marx sovranista che non è mai esistito

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Della rilettura in chiave sovranista di Marx sentiamo costantemente parlare. Sono tanti i compunti esperti di politica, filosofia, e specialmente geopolitica, che affermano che una rilettura in chiave sovranista del pensatore di Treviri sarebbe non solo possibile, ma che anzi sarebbe la sola ed unica lettura possibile del filosofo, economista ed attivista fondatore del comunismo teorico. Marx, insomma, voleva la sovranità degli Stati, e come al solito sono stati i posteri a non capirne il vero messaggio.
Karl Marx è stato indubitabilmente il più politico dei filosofi, impegnatosi anche in prima persona (alle volte mettendola a rischio) per le idee nelle quali credeva, ma nonostante il suo grande pragmatismo materialista, l’infinito puntiglio col quale nel corso della sua vita espose le sue idee sull’economia e la società, nessun autore è stato più male interpretato; questo almeno se si stanno ad ascoltare i suoi non pochi seguaci. Marx insomma non sbagliava, e sarebbero i marxisti, ogni volta, a sbagliarne l’interpretazione o, ancora peggio, a occultarne volutamente il vero messaggio od a sabotarne l’attuazione. La tendenza della storiografia marxista, che assolve il maestro sempre e comunque per i disastri che, sulle gambe degli uomini, furono portati dalle sue tesi, è ovviamente ricchissima di queste giustificazioni, ma questo però non sposta una questione ineluttabile, alla quale le risposte ancora mancano: la visione meccanicistica o, per dirla in maniera più tecnica, dialettica, dello sviluppo storico secondo Marx, si presenta al cospetto degli uomini come qualcosa di ineluttabile, monolitico. L’evoluzione della società in senso rivoluzionario non è per Marx un’ipotesi ma una certezza, pur con tutte le dovute differenze in tempi e modi a seconda del contesto diverso in cui ci si trova. Il filosofo, proprio in virtù della sua sicurezza ottenuta dallo studio “scientifico” dei processi storici, credeva ciecamente nell’ineluttabilità della Rivoluzione, tanto che nella sua infinita corrispondenza con Friedrich Engels si hanno innumerevoli entusiasmi (tutti regolarmente delusi) su vari tumulti europei che sarebbero stati sull’orlo di divenire una vera e propria rivoluzione nel senso da lui prospettato.
Per Marx non era questione di “se”, ma di “quando”, ed egli fu sempre in attesa febbrile di vedere una vera rivoluzione, in uno dei paesi d’Europa da lui giudicati maturi per tale processo, senza però assistervi mai. Nonostante per Marx il capitalismo non potesse che evolvere esclusivamente nel senso da lui prospettato, la Rivoluzione andò invece a verificarsi nell’ultimo paese nel quale, secondo i suoi calcoli e speranze, avrebbe dovuto verificarsi: la Russia, paese sì in via di modernizzazione, ma nel quale la classe operaia era ancora una minoranza assoluta, ed il lavoro alienato non era esattamente il primo dei problemi. La trasfigurazione della storia in termini oggettivi sembra insomma scricchiolare a fronte della dittatura brutale della realtà, ma bisognò aspettare la caduta del Muro di Berlino e la fine del socialismo reale per assistere al florilegio più esasperato di critiche, dal lato dei marxisti, al sistema comunista che era fallito “in quanto non realmente comunista”. La cosa fa riflettere, perché se la storia si preannuncia come un processo oggettivo inarrestabile allora diventa difficile contrastarne l’evoluzione, se non fosse che al contrario è stato il liberalismo capitalista a trionfare, e sulla Casa Bianca non sventola la bandiera rossa.
In barba ad Umberto Eco, che attribuiva alla destra radicale e al suo ur-fascismo l’ossessione del complotto, gran parte della critica marxista ai regimi socialisti si basa proprio su argomentazioni di questo tipo. Sarebbero gli untori culturali filo-capitalisti e occidentali, infatti, ad avere agito, come instancabili roditori, per sabotare l’inarrestabile sviluppo dialettico della storia: essi, anzi, stravolgendo completamente il significato originale del concetto marxiano di alienazione, ne avrebbero creato una versione post-moderna, sensista, addirittura borghese, generando un clima di sfiducia progressiva nel progresso e portando infine al fallimento, o quantomeno al ritardo dell’epifania della società comunista. Va da sé che l’idea che una macchinazione accademica sventi qualcosa che è “scientificamente irreversibile” getta una certa ombra sul teorico di questa irreversibilità. Tutto ciò, chiaramente, per limitarsi a prendere in parola ciò che i marxisti dicono, senza voler nemmeno andare ad analizzare la realtà dei fattori economici e geopolitici che condannarono quel sistema.
Continuando ad analizzare le vicende dei sistemi politici comunisti con le lenti filosofiche dello stesso materialismo storico la questione si fa ancora più farraginosa se, come tali dottrine insegnano, ogni processo politico e storico è figlio non dei cervelli degli intellettuali ma delle circostanze materiali obbiettive. Se la Storia è figlia esclusivamente di tali fattori, com’è possibile che l’ambiente culturale occidentale, o ancora di più la sua fabbrica di sogni, sia riuscita ad evitare quello che invece era un processo che la scienza stessa aveva sancito come inevitabile? A trent’anni dalla caduta del Muro i marxisti non hanno ancora fornito una risposta convincente a questa domanda, ma hanno anzi alzato una cortina fumogena attorno al loro capostipite presentandocene un ventaglio di visioni altamente diversificate, che già da sé dovrebbe far dubitare della scientificità del filone politico. La propaganda, le menzogne, potremmo dire la sovrastruttura idealistica, si presentano quindi come inaspettatamente più forti dell’obbiettività scientifica materialistica, con tutti i baratri e le inquietudini che questo comporta. Mentre tutto ciò accadeva, le famigerate contraddizioni del capitalismo che dovevano esplodere non sono esplose, e anzi il capitalismo è andato col tempo a portare sempre più vantaggi materiali alle classi operaie senza che si intravedesse la marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto all’orizzonte, né che si vanificasse ogni presunta manipolazione ideologica occidentale.
Tra le letture giustificazioniste moderne, quella in chiave sovranista di Marx appare la più debole in virtù del fatto che essa si lega, più che alle riletture “occidentali” dell’autore, che si concentravano più sul “giovane Marx” dei [Manoscritti economico-filosofici del 1844] a quelli che furono i caratteri dogmatici del Diamat sovietico (dialektičeskij materializm, materialismo dialettico) che furono di gran lunga i meno flessibili, e quindi anche i più esposti alle critiche, in caso di fallimento storico. La cosa non diede gran che da pensare ai suoi teorici, dal momento che il mancato successo di qualcosa di inevitabile era dato, appunto, per impossibile, ma è invece alquanto bizzarro che la cosa non desti qualche interrogativo nei marxisti sovranisti di oggi. Volendo anzi analizzare in maniera materialisticamente radicale ciò che è accaduto, potremmo addirittura cominciare a familiarizzare col fatto che probabilmente, anche riconoscendo una validità alla prassi di Marx, era precisamente scritto nella rigorosa meccanica storica l’avvenuto esito del collasso dei socialismi, ma i marxisti sembrano rifiutare una visione così brutalmente materialista ed oggettiva.
Emerge insomma tutto il carattere onirico del marxismo, e con esso il suo completo fallimento in campo scientifico: un sogno di successo, ma una formula matematica sbagliata. Questo assioma, ironicamente, sconfessa il Diamat sovietico apprezzato dai rossobruni, mentre sembra assegnare la palma della vittoria ai tanto disprezzati postmoderni, per i quali alla fine tutto si risolve in una mera battaglia tra sogni, come sembra alludere Sartre quando afferma che:
Demain des hommes peuvent décider d’établir le fascisme, et les autres peuvent être assez lâches et désemparés pour les laisser faire; à ce moment-là, le fascisme sera la vérité humaine, et tant pis pour nous; en réalité, les choses seront telles que l’homme aura décidé qu’elles soient.
Ecco dunque come si apra, implicitamente, un grande spazio politico per tutti coloro definiscono la politica in chiave onirica di lotte mobilitanti, ed ecco emergere il vero nocciolo vittorioso della contestazione del Sessantotto, che individuava nell’immaginario, piuttosto che nella fiducia deterministica nelle circostanze obbiettive, il vero fattore rivoluzionario per un’umanità rinnovata. Il sovranismo rossobruno si attacca dunque ad un filone ideologico radicalmente e fieramente avversario a quel post-modernismo “fuxia” (Diego Fusaro), che invece sembra essere la sua unica zattera di salvezza.
Un’analisi della fallacia della tesi rossobruna del “Marx sovranista” deve però portarci ad una lettura più approfondita delle tesi di Marx, e non soltanto al modo in cui esse sono state applicate nella storia. En passant, si può comunque notare quanto poco abbia, evidentemente, di scientifico, qualcosa che non si applica ma, secondo i Marxisti, si interpreta.
Che l’esplosione del fenomeno capitalista, destinato a trarre il mondo fuori dal deplorato organicismo che sorvegliava i rapporti di classe esistenti all’ombra dell’alienazione religiosa, fosse necessario per Marx, al fine di portare comunque al livello di alienazione necessario alla rivoluzione era cosa nota. Meno noto rimane, però, come si dovesse arrivare a questo processo. Ed è precisamente qui che l’idolo del Marx sovranista si incrina pericolosamente. La globalizzazione, per il pensatore, era infatti un fenomeno altamente positivo, poiché permetteva una vera evoluzione del mondo, oltre che in senso internazionalista, anche di una maturazione delle società coloniali in chiave industriale, fatto che avrebbe, anche laggiù, portato ad emergere, tramite la sofferenza degli operai, le contraddizioni mortali che avrebbero portato il capitalismo all’autodistruzione. A questo proposito, i poco conosciuti [Manoscritti economico-filosofici del 1844] ci offrono una visione esaustiva di un Marx tutt’altro che sovranista, e che anzi si compiace della caduta di ogni confine e dazio doganale.
Nel primo manoscritto, dove si dilunga nel descrivere gli aspetti storici ed economici della proprietà fondiaria, l’autore si dilunga in una serie di considerazioni che riguardavano l’Inghilterra del suo tempo, ma che potrebbero tranquillamente riguardare anche l’Italia attuale e, in misura ancora maggiore, quella che verrà tra qualche decennio, dove le giovani generazioni (meno numerose di quelle anziane) si troveranno e beneficiare di cospicue eredità che consentirebbero, ai regimi attuali, di vivere di rendita. In queste fasi storiche dove, secondo Marx, il proprietario ozioso entra in lotta contro l’affittuario sfruttandone il lavoro, l’apertura dei confini ed il dilagare della più feroce concorrenza capitalistica non è un fatto negativo (come invece gli odierni rossobruni vorrebbero farci credere), ma anzi è un fattore grandemente positivo, in quanto deprezzerebbe i beni fondiari e in generale i prodotti di una società protetti dai monopoli protezionistici rendendola dunque instabile e vulnerabile.
L’instabilità economica figlia della globalizzazione, dunque, non è vituperata da Marx, ma è manifestamente ricercata e perseguita. Analizzando il modo in cui le campagne, gettando le basi della loro decadenza, immettevano braccianti all’interno delle città industrializzate, Karl Marx annota che:
[…] La grande proprietà fondiaria spinge la stragrande maggioranza della popolazione nelle braccia dell’industria e riduce i suoi propri lavoratori alla completa miseria. Quindi essa produce e ingrandisce il potere del suo nemico, del capitale, dell’industria, poiché essa getta i poveri e una intera e completa attività del paese verso un’altra direzione. Fa diventare industriale la maggioranza del paese, e quindi lo trasforma in avversario della grande proprietà fondiaria. Quando l’industria ha raggiunto un alto grado di forza, come al giorno d’oggi in Inghilterra, essa estorce a poco a poco alla grande proprietà fondiaria i suoi monopoli contro quelli dei paesi stranieri, e la getta nella concorrenza con proprietà fondiaria straniera. Già, perché sotto il predominio dell’industria la proprietà fondiaria poteva assicurarsi la sua grandezza feudale solo in un regime di monopolio di fronte all’estero, per proteggersi in tal modo dalle leggi generali del commercio che contraddicono alla sua natura feudale. Una volta gettata nella concorrenza, è costretta a seguire le leggi della concorrenza, come ogni altra merce, che sia ad essa sottoposta.
In queste brevi battute possiamo già capire dove Marx sta andando a volgere il suo discorso: nel pieno stile che lo contraddistingue, egli analizza l’economia in modo dialettico, illustrando come, a suo avviso, la concorrenza tra proprietà fondiarie di diverse nazioni, resa possibile con le politiche liberali di abbattimento del protezionismo e dei dazi doganali, portasse avanti un processo storico tanto inarrestabile quanto positivo. Il progressivo deprezzamento delle merci “sicure” dietro i muri dei protezionismi gettava sul lastrico sia i proprietari fondiari sia gli stessi braccianti, gettando tutti costoro, tramite l’emigrazione, nelle grandi fabbriche della città europee. In questo modo, lo sviluppo storico sarebbe giunto ad uno stadio successivo, appunto il capitalismo liberale, che avrebbe fatto da trampolino all’inevitabile rivoluzione comunista, punto finale della dialettica storica. Il capitalismo, insomma, è un momento storico essenziale, e tanto più il processo in cui esso si afferma è rapido e violento (con tutto il suo carico di lavoro alienato, sofferenze, crisi economiche, bancarotte etc.) tanto meglio sarà, in quanto ciò porterà ad una realizzazione rapida della rivoluzione in senso comunista. La storia, secondo Marx, è stata estremamente lenta fino alla rivoluzione liberale francese, ma è destinata ora a muoversi in maniera molto rapida, poiché la rivoluzione borghese, che ha scalzato la nobiltà esattamente come quella industriale ha scalzato i proprietari fondiari rimpiazzandoli con i capitalisti, sarà l’immediato trampolino di quella socialista. La storia ha dimostrato poi di essere meno scientifica di quanto non si aspettasse Marx. Il manoscritto prosegue poi enunciando in maniera ancora più chiara la valenza positiva dell’assenza di confini e barriere, nonché il dilagare del capitalismo stesso, quando si può leggere che:
“Per opera della concorrenza con l’estero la rendita fondiaria cessa in grandissima parte di costituire una rendita autonoma. Una gran parte dei proprietari fondiari deve subentrare al posto degli affittuari che in questo modo decadono in parte a proletari. D’altra parte, anche molti affittuari si impadroniscono della proprietà fondiaria, perché i grandi proprietari, che coi loro redditi ottenuti senza fatica si sono dati in grandissima parte allo sperpero e sono pure per lo più inutilizzabili per la direzione dell’agricoltura in larga scala, non possiedono in parte né capitali né capacità per sfruttare i loro terreni.”
Insomma, la libera concorrenza è un fatto positivo, poiché coloro che vivono di rendita (il discorso non si applica solo ai proprietari fondiari, ma li travalica) vengono gettati tra le fauci della miseria, sperimentando la durezza del vivere. Il processo assume per positiva proprio l’estrema volatilità della società liberale, dove la concorrenza, la kantiana “insocievole socievolezza” si tramuta in motore del progresso umano, dove esso è mosso non dalla volontà effettiva di progredire, ma di quella angosciosa e animalesca di non venire sommersi. In questo modo, col progresso capitalistico, aumentando l’alienazione ed il lavoro estraniato, così come verificandosi la progressiva caduta tendenziale del saggio di profitto, la rivoluzione si sarebbe senza dubbio avvicinata, e tanto peggio per coloro che sarebbero caduti in miseria. Il quadro dipinto da Marx si delinea come molto simile a quello dell’Italia attuale dove appunto gli odierni equivalenti dei padroni fondiari, vale a dire i giovani disoccupati che vivono, spesso contro la loro volontà, di rendita sulle spalle delle famiglie, vedono sempre più immiserita la loro condizione a causa della concorrenza economica estera generata dalla caduta delle frontiere. Secondo Marx, lo abbiamo detto, il processo è positivo: la sofferenza di questi giovani, causata dalla concorrenza estera, è buona cosa, poiché li porterà a volersi ribellare contro il capitalismo. Per questo il capitalismo deve esplicitarsi in tutta la sua violenza, per questo le frontiere devono cadere, e Marx lo dice esplicitamente poco oltre:
“Finalmente il salario ridotto al minimo deve essere ancora ulteriormente ridotto per sostenere la nuova concorrenza. Il che conduce poi necessariamente alla rivoluzione. La proprietà fondiaria doveva svilupparsi […] per esperimentare la sua necessaria decadenza, allo stesso modo che l’industria doveva andare in rovina nella forma del monopolio ed in quella della concorrenza per imparare a credere nell’uomo.”
Sono passaggi densissimi di significato, che spiegano bene cosa il pensatore di Treviri pensasse della sovranità e della necessità di proteggere le economie nazionali dietro a dazi e tasse protettive. Il quadro che ne emerge è un Marx tutt’altro che sovranista, quasi anarco-liberale, laddove questa prassi compiaciuta porti agli esiti che, secondo lui, sarebbero gli unici possibili dello sviluppo storico. Quello sviluppo storico il cui capolinea altro non sarebbe, lo abbiamo letto, che un razionalissimo “credere nell’uomo”. Un “uomo” per il quale le società tradizionali, dell’Europa come di tutti paesi del mondo, sono avversarie, meri cani da guardia dell’alienazione capitalistica (in Europa) e religiosa (nella gran parte del resto del mondo). Anzi, l’Occidente, nella sua accezione moderna di Europa Occidentale assommata agli Stati Uniti d’America, viene ricoperto di una vera e propria aura salvifica quando, ormai decollato lo sviluppo industriale in queste terre, spinto dai bassi prezzi della manodopera, deborderà nel mondo non sviluppato. La valenza di questo processo la si può leggere già nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, dove ampiamente celebrato è il dinamismo della borghesia cosmopolitica generato dall’illuminismo che, lo leggiamo con le sue parole “ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i Paesi” ha abbattuto “con i tenui prezzi delle sue merci tutte le muraglie cinesi”, “ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi, l’Oriente dall’Occidente” [Marx/Engels 1848/1973: 489-90]. Eccolo, dunque, il sovranismo di Marx.
E ancora, ce n’è anche per il colonialismo britannico in India, elogiato proprio perché “assolverà una doppia missione, l’una distruggitrice, l’altra rigeneratrice: annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta materiali della società occidentale in Asia” [Marx 1853/1978: 223]
Per dirla con lo studioso di marxismi, di certo non tacciabile di simpatie identitarie, Marcello Musto, “Marx dava al mondo extraeuropeo il viatico sicuramente più significativo: ovvero che la prima sua emancipazione consistesse nel raggiungere la modernità democratica borghese”. Il messaggio di Marx era insomma fortemente eurocentrico, ma nel modo in cui potrebbe esserlo quello di un moderno neoconservatore anglosassone, rispetto ad ben un identitario Oswald Spengler. Peraltro, il caos creativo più volte teorizzato dall’autore neocon Micheal Ledeen nella sua valenza progressista ed emancipatoria, si presenta come molto simile alla positiva “instabilità” anti-organicistica celebrata dal giovane Marx dei Manoscritti.
Da tutto ciò consegue che la lettura in chiave sovranista e rossobruna di Karl Marx non può che essere al contempo pretestuosa e poco informata, oppure che può nascondere in sé addirittura il machiavellismo accelerazionista che vede, nel supporto alla Cina capitalista di Xi Jingping, un modo di impoverire le masse occidentali quel tanto che basta per far rientrare dalla finestra il comunismo tanto faticosamente cacciato dalla porta. Se così non fosse non si capirebbe per quale motivo il sovranismo rossobruno si collochi in posizioni di puntellamento di quella che oggi è la prima economia capitalista del mondo, ovvero quella di Pechino. Ed è precisamente, guardacaso, proprio Pechino ad aver dato il via, con l’adesione della Cina al WTO e all’immissione dei suoi prodotti a basso costo (dato dalla semi-schiavitù della sua manodopera priva di diritti), all’erosione di sempre più vaste quote di mercato per le merci europee. E’ Pechino che appropriandosi delle industrie dei capitalisti occidentali che delocalizzano (grazie anche ai dazi che cadono, processo, abbiamo visto, celebrato da Marx), sottrae sempre più lavoro all’Occidente, avviandone la de-industrializzazione forzata.
In questa prospettiva, sia il liberalismo dilavatore delle frontiere e delle differenze, sia il rossobrunismo filo-pechinese, lavorano in sinergia: l’uno a caccia di maggiori profitti, l’altro a caccia di vantaggi geopolitici per una potenza, la Cina, che si spera sfrutterà poi in senso politico le instabilità economiche da essa stessa create in Europa Occidentale. Se ne deduce quindi che il sovranismo marxista altro non sarebbe che un grande mito propagandistico, che col sovranismo non c’entra niente, e le cui premesse sono teoricamente inesistenti non solo dal punto di vista del sovranismo, ma anche da quello dello stesso Karl Marx. Quanto questo mito e la diffusione di esso siano processi dovuti a ignoranza della materia oppure ad un piano predeterminato, non è al momento dato sapere.
“Karl Marx by Robert Diedrichs, 1970. Courtesy WikiCommons” by Royal Opera House Covent Garden is marked with CC BY 2.0.
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