Per un nuovo Sessantotto ripartiamo da Schiller

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Friedrich Schiller, filosofo, drammaturgo e poeta della Germania della seconda metà del settecento, rimane ad oggi un tesoro semi-sconosciuto nel piccolo grande mondo della contro-cultura italiana.
Cresciuto in una Germania che veniva progressivamente innervata dalla grande espansione delle idee dei Lumi, Schiller è considerato uno degli iniziatori di quel grande clima culturale, il Romanticismo, che caratterizzò l’Europa, in particolare proprio la Germania, per tutta la seconda parte del Settecento e per gran parte del secolo successivo. Il poeta e filosofo rifiutava però, per quanto riguardava la sua persona, la definizione di romantico, più adatta a quello che all’epoca era noto come Il Circolo di Jena, ovvero il cenacolo di giovani intellettuali che, nella piccola e dotta città della Turingia, si radunavano attorno ai fratelli Schlegel e poi, a Berlino, attorno alla rivista culturale Atheneum. Tra i romantici, ai quali Schiller (con Goethe) rimproverava un’eccessiva critica e contrapposizione verso le tematiche e gli stilemi della classicità, troviamo all’epoca anche il Von Hardenberg, detto Novalis, il poeta Friedrich Hölderlin ed il filosofo Schleiermacher, oltre a stretti contatti con pensatori del calibro di Fichte e Schelling.
Nonostante Schiller ricusasse i romantici, una profonda sinergia intellettuale lo accomunava in realtà agli animosi giovani di Jena. Fortissima era, fin dall’epoca della sua gioventù passata nell’alveo dello Sturm und Drang, la critica alla scissione tra i concetti di natura e di libertà.
Per Schiller, in grande anticipo sui tempi, lo sbilanciamento dell’uomo verso quello che i romantici chiamavano “l’intelletto astratto”, era la causa dei risvolti negativi che l’illuminismo, che pure portava con sé notevoli buone intenzioni, andava esplicitando nell’ultima parte della sua vita.
Sull’onda del terrore rivoluzionario, con le sue esplosioni para-religiose dedicate al culto semiserio della “dea Ragione”, il filosofo svevo ebbe modo di riflettere acutamente sulle conseguenze dello sbilanciamento di quello che egli aveva battezzato come Formtrieb, ovvero l’impulso formale.
Ne “L’Educazione Estetica dell’Uomo”, serie di lettere indirizzate all’illuminato principe danese Friedrich von Schleswig Holstein – Augustenburg, Schiller annotò che l’uomo sbilanciato sul suo Formtrieb, altro non poteva essere che un uomo perennemente frazionato; scisso atomisticamente nelle sue miriadi di competenze tecniche, tutte ben approfondite, ma privo di un patrimonio sapienziale unitario, elemento invece peculiare dell’uomo antico, in particolare dell’uomo greco.
Responsabile della nefasta tecnicizzazione del sapere era, secondo Schiller, il progressivo raffinarsi della cultura europea, che aveva operato una cesura tra gli intelletti intuitivi e quelli speculativi i quali, entrambi necessari ad una società necessariamente organica, si videro da un giorno all’altro rivali. Nelle lettere viene contestato come i due intelletti avessero preso a devastare a vicenda i campi dell’agire dell’altro: l’immaginazione devastava le speculazioni scientifiche razionali, mentre le astrazioni speculative inaridivano poesia e fantasia. A questo processo di degenerazione nemmeno la politica poteva rimanere immune, generando uno stato occhiuto e pervasivo, forte, anziché del rispetto, solamente del timore che incuteva. Uno Stato nel quale l’uomo, secondo il filosofo “si forma unicamente quale frammento e, avendo nell’orecchio continuamente il rumore monotono della ruota che gira, non sviluppa mai l’armonia del suo essere”.
Allo stesso tempo, nella Lettera VII, troviamo un accorato grido d’allarme, che ben descrive, quasi sotto la forma di un’inquietante profezia, le conseguenze di uno sbilanciamento opposto, verso quell’Impulso Materiale, Stofftrieb, che pur donando sapere intuitivo e stupore per la bellezza, nonché le capacità pratiche per districarsi nella giungla del quotidiano, incatena l’uomo ai suoi istinti animali ed agli arbitrii, come i noti Prigioni di Michelangelo Buonarroti.
I princìpi liberali dei Lumi, secondo Schiller, qualora vengano donati a uomini ancora troppo appesantiti dal carico dell’Impulso Materiale, avrebbero generato crimini dei quali l’uomo settecentesco ancora aveva poco sentore. Facendo da vettore ai più bassi istinti arbitrari, quei princìpi avrebbero soltanto rinvigorito le tirannie, stavolta diventate di massa, a danno degli individui. In questo clima, l’Europa avrebbe celebrato l’Umanità degli uomini di colore, e disonorato quella dei suoi pensatori, e la filosofia e la cultura sarebbero diventate le migliori esecutrici di questo disegno, completamente prone al potere dominante.
Gli uomini, spaventati dall’eccessiva libertà, avrebbero cercato la loro salvezza in forme di schiavitù ancora più abiette di quelle antiche, e, schiacciati da un pedantesco spirito paternalistico, avrebbero trovato un temporaneo sollievo solamente nel brutale esercizio dei vizi. Le forze della sovversione avrebbero cavalcato questi vizi, facendone un bastione del proprio dominio, mentre i ribelli si sarebbero appellati alla dignità della natura umana, fino a che la grande contesa non sarebbe stata risolta con un definitivo scontro di forze brute.
In questa condizione di brutale servaggio, leggiamo nella lettera XXIV, la condizione dell’uomo è assolutamente mesta e priva di dignità: egli è ottenebrato dall’egoismo, ma continuamente mutevole nei suoi interessi e giudizi, ed il reale è percepito da egli come un continuo succedersi di fatti predestinati, all’interno dei quali egli non ha alcun potere oggettivo. L’uomo schiavo del Stofftrieb, subisce il mondo, non si armonizza ad esso, e ciò che ha valore non possiede tale caratteristica in nome di princìpi assoluti, ma esclusivamente in base ai benefici od agli svantaggi che può procurare all’uomo singolo in questione. All’uomo schiavo del materiale, dunque, ogni fenomeno appare singolarmente, svitato da qualsiasi visione unitaria dell’esistente e da qualsiasi necessità che faccia da filo conduttore tra gli oggetti e le esperienze. Incapace di carpire la bellezza della natura, poiché ineducato, quest’uomo si limita ad abitarla e percorrerla, identificando in essa solamente prede oppure predatori. Sballottato dalle forze naturali, egli pur odiandole, le teme, e continuamente brama di liberarsi dai vincoli che esse, come a tutte le creature viventi, gli hanno imposto.
Impedito a percepire la sua dignità, ancora latente, percepisce invece molto bene i suoi istinti belluini, che teme negli altri uomini; tale timore, non fa che isolarlo ancora di più in uno stato di solitudine angosciosa, che si protrarrà fino a che la Natura non porrà fine alla vita fisica dell’uomo in questione.
I romantici, così legati al primato dello Stofftrieb, rischiavano dunque, loro malgrado ed in buona fede, di aprire una finestra su di un mondo simile. Secondo lo svevo, solamente l’equilibro dei due impulsi, che era ben evidenziato nell’uomo dell’Antica Grecia, poteva garantire all’uomo quella giusta misura e temperanza. L’uomo ellenico, infatti, secondo uno stilema molto popolare in epoca romantica, coniugava gli elementi irrazionali del sentimento e dell’istinto, con quelli razionali della musica e del canto, in un’attività che in epoca antica era assolutamente nuova: il teatro.
Solo sui palcoscenici degli antichi teatri classici l’uomo era stato realmente Uomo. Per descrivere l’armonia degli impulsi naturali con quelli formali, Schiller coniò la parola Spieltrieb, in italiano tradotta come Impulso al Gioco. Soltanto nell’esercizio di questo impulso i sentimenti, gli affetti e la ragione danzano insieme senza osteggiarsi a vicenda; in questo contesto, inoltre, la bellezza non è solo opera d’arte, ma attraverso la figura umana si rende bellezza vivente. Solo la Bellezza, dunque, può portare al bilanciamento degli istinti naturali e formali che, quando non bilanciati non fanno che rendere l’uomo schiavo di sé stesso. La Bellezza è dunque non l’obbiettivo dell’uomo libero, ma il vettore dell’uomo verso la libertà. Solamente la bellezza, armonizzando i nostri impulsi, può liberarci dagli esiti nefasti del loro squilibro. Ecco dunque che, per avere uomini liberi, non dovremo indugiare nella pedantesca tutela già vista, all’epoca, sia da parte dei giacobini che degli antichi regimi, quanto piuttosto in un’educazione alla bellezza, una vera e propria educazione estetica. Liberato dalle speculazioni cogitatorie esattamente come dagli arbitrii dello stato di natura, l’uomo così pronto a vivere il mondo in armonia con gli altri uomini e con la natura stessa, pronto, soltanto allora, a usufruire delle sue libertà di cittadino.
Nella descrizioni degli uomini sbilanciati tracciata da Schiller, non possiamo che trovare molti elementi in comune con esperienze storiche, ahinoi realizzatesi, nei secoli successivi a quello del pensatore tedesco. Come non vedere, nello sbilanciamento sul Formtrieb, sia il progredire della rivoluzione industriale, con l’uomo contadino dal sapere universale schiavizzato nelle catene di montaggio, sia l’ossessiva ricerca e burocratizzazione di qualsiasi istinto tipica, ad esempio, delle folli teorizzazioni del socialismo utopista di Charles Fourier? E come non vedere, negli esiti catastrofici dello sbilanciamento sul Stofftrieb profetizzati nella settima lettera, le drammatiche conseguenze di quel primato degli istinti intuitivi che fu “l’immaginazione al potere!” negli anni della contestazione dal Sessantotto in poi? Gli esiti, a ben vedere, sono stati molto vicini a quelli profetizzati dal filosofo. Se dunque possiamo vedere, nella storia che seguì la vita di Schiller, gli esiti degli sbilanciamenti sui due impulsi morali, entrambi ben rappresentati dalla Rivoluzione Francese prima, e da quella del Sessantotto poi, non possiamo che notare come invece manchi una terza rivoluzione culturale, quella basata non su di uno sbilanciamento, ma su di un accentramento. Una rivoluzione ideale che si basi sulla messa in asse attorno al centro dello Spieltrieb schilleriano, che metta al centro l’armonia e l’arte, anziché la speculazione. In questo senso, non possiamo dirci d’accordo con Marcello Veneziani, nel suo considerare la Reggenza del Carnaro come un Sessantotto ante litteram. L’Impresa di Fiume di Gabriele d’Annunzio fu, con grande probabilità, l’evento storico che più si avvicinò alla grande rivoluzione culturale, ancora da farsi, nel nome dello Spieltrieb.
All’uomo di oggi, comprensibilmente sfiduciato, potrà apparire aulico e velleitario il parlare, nel nostro mondo quotidiano totalmente asservito ai mercimoni della società liberale, di rivoluzioni ideali e di ri-bilanciamento dell’uomo attorno all’asse del bello. Eppure, ci dice sempre Schiller, le decadenze, dentro un impulso o l’altro, non sono mai definitive; i mezzi per uscire dalla palude non sono pochi, anzi.
“L’Europa si è ridotta a portare le sue chiese senza Dio, i suoi palazzi senza re come gioielli scintillanti sul seno sfatto. (da Le jeune européen, Gallimard, 1927; citato in Ideario antiborghese, a cura di Mario Bozzi Sentieri, Edizioni Il Settimo Sigillo, 1989)”
Così scriveva, sconsolato, Pierre Drieu La Rochelle già nel 1927, un momento di grande travaglio per il continente europeo flagellato dagli esiti postumi di una guerra che aveva cancellato in un sol colpo tutti gli antichi imperi europei. Schiller, invece, nutrito da grande ottimismo, rimarcherà invece come le bellezze costruite dagli uomini del passato, non siano soltanto vuoti scheletri di glorie perdute, ma continui moniti a tornare agli antichi splendori. Non nostalgia, dunque, ma slancio archeofuturista. Schiller riportando ad esempio la grande esperienza storica della Romanitas, ci ricorda come già il cittadino romano di epoca giulio-claudia avesse preso a inchinarsi di fronte ad i suoi imperatori, quando invece le statue degli Dei ancora troneggiavano ritte, e come la severità delle forme di templi ed edifici pubblici fosse lì a svergognare, silentemente ma in maniera evidentissima, le meschinità degli imperatori indegni e degli empi sacerdoti.
Era l’Arte degli uomini bilanciati, dunque, a denunciare l’indegnità dei posteri, ed a custodire, nelle poche buie, la dignità di quell’umanità perduta.
Afferma Schiller, nella Lettera IX:
“L’umanità ha smarrito la sua dignità, l’arte però l’ha salvata e custodita in pietre eloquenti; la verità sopravvive nell’illusione, e dalla copia verrà ricreato l’originale.”
L’illusione di cui parla il filosofo tedesco è dunque l’opera d’arte. Quel messaggio solo apparentemente “non di questo mondo”, ma pronto a riconcretizzarsi negli uomini e nella società, una volta che questi siano degni del gravame della Libertà che questo comporta. Il primato dell’onirico, elemento centrale del movimento romantico, presentissimo già nell’Heinrich Von Ofterdingen di Novalis, si unisce qui al primato del visivo. L’arte come oggetto primario di liberazione degli oppressi; elemento, questo, dell’opera schilleriana, assolutamente inesplorato.
In una civiltà di Homo Videns (Sartori) ad alta mediatizzazione e totalmente assoggettata all’approccio visivo e mediatico nei confronti dell’esistente, si presta in maniera assolutamente perfetta ad una nuova rivolta artistica. Un nuovo movimento, o ancor meglio, un nuovo clima, all’interno del quale ogni paradigma deve essere ripensato, e ciò che è chiamato giusto deve diventare ingiusto, ciò che è chiamato bello deve diventare brutto. Una vera risposta al Sessantotto, un ribaltamento del Sessantotto, un’offensiva culturale senza tregua che porti al centro dei cuori calando dall’alto dei cieli, un superamento di Destra Assoluta e Sinistra Assoluta (Dugin), per giungere al centro immobile della ruota politica.
Come farlo, è sempre Schiller a dircelo. Sempre sul finire della lettera IX, al lettore si raccomanda di vivere ben radicato nel contesto quotidiano, ma senza mai esserne sua creatura, dando ai nostri contemporanei non ciò che desiderano, ma ciò di cui hanno bisogno, condividendo le loro miserie e sofferenze senza mai però esserne contaminato. L’austerità e la serietà dei princìpi del rivoluzionario, ammonisce Schiller, spaventeranno le persone, ma le riempiranno anche di una segreta ammirazione per lui. I vizi risulteranno inattaccabili, se affrontati a muso duro direttamente, ma sarà nel campo degli ozi e dei divertimenti che si giocherà la vittoria. In quei divertimenti il rivoluzionario dovrà fare uso di quella che Schiller chiama “la mano plasmatrice”: frivolezza e arbitrio dovranno venirne banditi, e tutto ciò che sarà bandito dai divertimenti finirà, impercettibilmente ma inesorabilmente, per venire bandito anche dalle azioni quotidiane e dal campo della morale. Ovunque il popolo dovrà essere cinto di esempi positivi, di forme nobili e bellezza, di cerchie di simboli eccellenti, affinché l’apparenza vinca la triste realtà e l’arte elevi la brutalità naturale.
L’uomo centrato attorno allo Spieltrieb, non nega snobisticamente il legame, assolutamente orizzontale e di natura, tra apprendimento e visualizzazione, ma lo accetta, e nichilisticamente fa suo il ruolo di Homo Faber, rivolgendolo però non al campo della tecnica, quanto piuttosto a quello dei sogni e delle idee. E’ il rivoluzionario dell’Impulso al Gioco colui che fabbrica i sogni dei suoi contemporanei. L’incantesimo pericoloso degli apprendisti stregoni di Hollywood, torna dunque nelle mani dei saggi. Già il sociologo marxista francese Pierre Bourdieu, nel suo “La Distinction. Critique sociale du jugement”, pubblicato nel 1979 affermava che la stabilità sociale dipende da:
“un comune sistema di segni fornito di una qualifica sociale, che contiene disposizioni durevoli e trasponibili”, schierandosi dunque, seppur implicitamente, contro il nichilismo dell’indifferenziato relativismo valoriale oggi imperante, inquadrando dunque, nella chiave per la libertà, l’uniformità dei valori ma soprattutto dei modelli estetici.
Proseguirà Michel Foucault, affermando:
“Il potere nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come un’istanza negativa che avrebbe per funzione di reprimere”
Tralasciando la funzione del potere come di dispencer del piacere, peraltro già magistralmente esposta da Slavoj Žižek, vediamo che quelle che Foucault chiama “sapere”, gli oggetti creati dalla “rete produttiva”, potrebbero ben essere, in potenza, le qualità dell’uomo centrato nello Spieltrieb secondo Schiller, e mai come ora avvertiamo la maturità di un contesto politico, culturale, geopolitico, che mai si è meglio presentato agli occhi dei rivoluzionari amici delle Patrie.
Il Nuovo Sessantotto, obbiettivo vagheggiato dalle destre populiste troppo spesso ancorate ad un nazionalismo museale retrivo e stantio, o ad un conservatorismo che non ha più alcun valore da conservare, trova dunque nuova linfa e carburante per continuare la sua marcia, nell’imprescindibile, e ora svelato, patrimonio filosofico del pensatore di Marbach am Neckar.
La strada tracciata da uno dei padri del movimento romantico, rappresenta la via maestra di chi ha dato via a Essenzialismi, e la missione è ben tracciata dalle parole del sociologo inglese Steven Lukes:
“Riuscire a influenzare i desideri degli altri e garantirsi la loro acquiescenza tramite il controllo dei loro pensieri e desideri non è forse la prova di potere più lampante che esista?”
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