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No, dopo la pandemia non ci attende un’utopia solidaristica

No, dopo la pandemia non ci attende un’utopia solidaristica

Sono passati soltanto tre giorni da quando Ludovica Scarpa, scrittrice, insegnante, ricercatrice di sociologia dei processi culturali e comunicativi, nonché blogger per “Il Fatto Quotidiano”, ha pubblicato un articolo dal titolo “Coronavirus, niente sarà più come prima: ben presto avremo imparato la lezione”. Deputato a tratteggiare i caratteri della società post-emergenza da pandemia covid-19, l’articolo sembra delineare, almeno dal titolo, l’idea di un’umanità che, appresa la lezione di come un contagio avviene, ovvero attraverso l’interazione umana globale sempre più forzata, ritornerà ad essere più distanziata. Nulla di più falso. L’articolo, lo vedremo, sostiene esattamente l’opposto. Lo scritto si apre con una sentenza lapidaria, quasi a voler chiarire dogmaticamente dove si andrà a parare, della serie “se non sei d’accordo puoi anche smettere di leggere”. La sentenza proclama:

“Solo un nemico esterno, ad esempio un nemico proveniente da Marte, avrebbe potuto insegnare agli esseri umani che fanno parte di un’unica grande meravigliosa specie, vulnerabile, creativa, bisognosa, che può coltivare il suo bisogno di star bene solo insieme. Le differenze nazionali sono risultati della storia: una storia intrisa di sangue e disastri per difendere confini che non sono che astratte linee su di un pianeta comune, l’unico a disposizione. Questo modo bellicoso di stare al mondo finisce ora. Questo nemico è infatti arrivato, è un’altra specie, il Virus, il re dei Virus con la sua Corona, che ha sconvolto le nostre piccole certezze e comodità, ci ha dichiarato guerra – la Natura sembra ci voglia rimettere al nostro posto, le abbiamo mancato di rispetto davvero troppo. Si rivolta contro di noi. E’ una guerra mondiale, la terza: quella tra l’Umanità e il Virus.”

Il lettore attento avrà immediatamente capito dove l’autrice intenda condurlo: il trucco è vecchio, ed è il solito additare un nemico esterno per coagulare un fantomatico “fronte interno”, magari non troppo coeso. Il nemico esterno in tal caso sarebbe il virus Covid-19, paragonato addirittura ad un essere extraterrestre, ad un cinematografico marziano da pellicola hollywoodiana. Il problema è però che il virus Covid-19 non è un virus alieno, né tantomeno un essere extraterrestre, quanto piuttosto qualcosa di estremamente terrestre. Il nemico esterno, in realtà, è assai interno. Il fatto che gli esiti nefasti di un’epidemia coinvolgano l’umanità intera non significa certo che l’umanità intera sia colpevole dell’epidemia, o viceversa innocente. Non è questa la sede per dilungarsi in maniera scientifica su come il virus Covid-19 abbia potuto compiere il cosiddetto “salto di specie” dal pipistrello al pangolino ed infine all’uomo, poiché scienziati ben più autorevoli si sono dedicati e tutt’ora si stanno dedicando a queste ricerche, ma basterà ricordare che le condizioni ed il contesto affinché una zoonosi si possa verificare non sono affatto qualcosa sul quale l’uomo non possa intervenire, anzi. Se l’uomo infatti non fosse in grado di intervenire in nessun modo sulla diffusione dei virus e dei batteri, ad esempio costruendo impianti fognari efficienti e provvedendo a campagne di vaccinazione di massa, è probabile che anche nella società del benessere del XXI secolo avremmo epidemie periodiche simili, per letalità, a quelle medievali; eppure ricerca scientifica, e soprattutto igiene e prevenzione, hanno contribuito ad abbassare notevolmente questi rischi, tanto che le epidemie più pericolose per l’umanità (quali ad esempio quelle di Ebola dell’Africa centrale o la recente pandemia di Coronavirus in Cina) nascono tutte in contesti di scarsa igiene o promiscuità tra uomini ed animali selvatici. Perciò, l’esplosione di una pandemia non rappresenta un fattore di rischio ineluttabile, come ad esempio i terremoti o le eruzioni vulcaniche, ma piuttosto un coefficiente di pericolo che la condotta umana può sensibilmente abbassare, a patto che ne esistano volontà e mezzi per farlo.

Ludovica Scarpa sembra ignorare proprio questo: proprio perché il mondo si è rimpicciolito ed è diventato un’unica grande casa, le responsabilità dei singoli inquilini non diminuiscono, ma anzi aumentano. Se in una casa abitata da un singolo uomo dovesse rompersi la caldaia, e questo guasto fosse causato da semplice incuria e mancata attenzione, il singolo inquilino non avrebbe da rimproverare che sé stesso, e si rimboccherebbe le maniche per riparare il danno, magari con l’aiuto di un vicino che, non colpito dal disagio di stare al freddo, aiuterebbe volentieri il vicino in difficoltà. Ma in una grande casa abitata da molti coinquilini le cose cambierebbero radicalmente. E’ senz’altro vero che all’inizio ci sarebbe un clima di collaborazione, dato dalla necessità di doversi scaldare in fretta per non patire il freddo, ma una volta risolto il problema sorgerebbe spontanea la domanda: “chi l’ha rotta?” e soprattutto “chi paga?”. Un inquilino potrebbe ammalarsi a causa del freddo e non poter andare al lavoro, andando incontro così a minori introiti economici: da chi dovrebbe venire risarcito? Sono domande a cui l’articolo di Ludovica Scarpa sembra non dare importanza, eppure sono domande che il mondo si farà: i singoli inquilini, risolta l’emergenza, si chiederanno chi sia stato a “rompere la caldaia”, soprattutto se si dovesse coprire che la caldaia si poteva salvare, se solo fosse stato chiamato il riparatore qualche giorno prima. Ogni giorno, e lo vediamo quotidianamente sui nostri telegiornali che non parlano d’altro, atterrano aerei carichi di rifornimenti (denominati “doni”) di apparecchiature mediche, medicinali e vestiario anti-infettivo da altri Paesi. Russia, Stati Uniti, Germania, Cuba, Albania e Cina sono solo alcune delle nazioni che in questo momento stanno inviando aiuti al nostro Paese, e che a loro volta hanno ricevuto o ricevono aiuti da altre nazioni: tutto il mondo sta collaborando alla risoluzione dell’emergenza, e questo è fuori da ogni dubbio poiché per tutti la priorità è salvare il bene più prezioso, che è la vita. Ma quando l’epidemia sarà passata, e gli ospedali da campo americani, cinesi, russi saranno stati rimontati e rispediti nei loro paesi, quando i medici cubani e albanesi si saranno imbarcati sugli ultimi voli per L’Avana e Tirana, qualcuno, guardando le macerie di un sistema sanitario e le tombe di tanti suoi connazionali si chiederà “chi è stato?”. E’ un comportamento perfettamente naturale, e non c’è davvero alcun segno che l’uomo debba comportarsi diversamente da come si è sempre comportato nella storia, a maggior ragione del fatto che oggi sappiamo perfettamente come e che cosa scatena la virulenza dei virus, mentre in passato potevamo al massimo lamentarcene con Dio, chiedendoGli comunque clemenza.

L’uomo moderno infatti, quello razionale, ossia “l’umanista” che probabilmente dovrebbe costruire il mondo dell’utopia scarpiana, non può tollerare che certe cose semplicemente accadano. La Raison gli ha insegnato che è da medievali superstiziosi prendersela con Dio (o con Satana) o con il Fato dei classici: se qualcosa è accaduto è perché c’è una motivazione, ed è solo questione di tempo prima che l’animale-razionale riesca a scoprirla ed a spogliarla dell’accidentalità di cui si è vestita per sfuggire al tribunale di salute pubblica dell’umanità. Anche nel Medioevo e durante le grandi pestilenze tale ragione animava le masse: che le cose accadessero per puro arbitrio del Caso, o per manifesta volontà punitiva di Dio rimaneva una cosa inaccettabile agli occhi dei più; doveva esserci un motivo umano, riconducibile all’alveo della razionalità. Era precisamente la ragione a scatenare la caccia agli untori ed i roghi improvvisati, mentre era proprio la fede ingenua nell’irrazionale a scoraggiarla, raccomandando penitenza e preghiera verso un cielo fattosi muto e imperscrutabile di fronte al penare degli uomini.

L’articolo di Ludovica Scarpa continua poi con un ulteriore proclama dal sapore pseudo-messianico:

Ne uscirà quindi una nuova umanità mondiale, solidale, una sorta di democrazia del prendersi-cura, terapeutica, o del diritto al bene, alla benevolenza, alla compassione per una vulnerabilità che non va più nascosta, ma che è la bandiera di tutti noi, piccoli nuovi umani, principianti. Siamo invincibili se siamo consapevoli della nostra vulnerabilità, del nostro bisogno di star bene, che ci caratterizzano. Siamo orgogliosi di essere vulnerabili e di occuparci gli uni degli altri – anzi, non si dice più “gli altri”: gli altri siamo noi, noi umani.

Diventa difficile confutare con le armi della ragione un simile assioma. Si sa, la ragione può cercare di attaccare soltanto ciò che è ragionevole, o quantomeno logico, ma difficilmente riesce ad attaccare ciò che è completamente irrazionale, tuttavia ci proveremo. Il fatto che “ne uscirà una nuova umanità solidale” è quantomeno dubbio, sempre perché, in un’unica grande casa, tutti si chiederebbero, come già ricordato poco sopra, “chi ha rotto la caldaia”. Il mondo, il cosiddetto villaggio globale, non si avvicinerà ulteriormente, ma semplicemente si renderà conto di essere già molto vicino. Si tratta di una differenza di carattere temporale abbastanza sfumata, ma generatrice di esiti macroscopici: secondo la Scarpa infatti le varie comunità umane si renderanno conto che la lontananza le aveva fatte deboli, e si uniranno per stare più vicine, per “fare gruppo”, dal momento che l’unione fa la forza. Il problema nella visione scarpiana è però che il messaggio del virus, nonché l’evidenza scientifica dicono l’opposto: il virus si espande, uccide e contagia tanto più si sta vicini e tanto più i confini del villaggio globale si fanno ristretti, avvicinando le comunità umane. La logica quindi suggerirà agli uomini di evitare un contesto che ha ingenerato una simile emergenza, piuttosto di ricercarlo ed anzi implementarlo ancora di più, e ciò avviene proprio perché l’uomo è una specie assolutamente “creativa”, come rimarca la stessa Scarpa, e impara le lezioni secondo logica, piuttosto che secondo utopia. Ludovica Scarpa, sembra infatti agire come i penitenti medievali, che durante le penitenze invitavano irrazionalmente a pregare e battersi il petto, unendosi magari in riti collettivi di massa, per risolvere tutti insieme la pandemia con la forza della fede. Qualcuno diede loro ascolto, ma col tempo l’umanità preferì dotarsi di fognature e sterminare i topi. Viene poi da chiedersi perché dovrebbe sorgere una “democrazia del prendersi cura”. Perché democrazia? Passi l’aggettivo “terapeutica”, che assomiglia molto a “società del benessere”, ma perché democrazia? Se c’è una lezione che l’epidemia sta dando all’umanità è anzi quella che sono i sistemi politici autoritari e/o irrispettosi del concetto occidentale di privacy i modelli vincenti. Cina, Corea del Sud, Giappone, Singapore, Vietnam: sono tutti Paesi che, per tradizione e sistema politico privilegiano la collettività, la massa, piuttosto che il singolo individuo privilegiato dal liberalismo occidentale. Se il regime del futuro fosse terapeutico, chi ci dice che sarebbe anche democratico? E soprattutto perché dovrebbe esserlo?

Non è nemmeno vero che “Siamo invincibili se siamo consapevoli della nostra vulnerabilità, del nostro bisogno di star bene, che ci caratterizzano. Siamo orgogliosi di essere vulnerabili e di occuparci gli uni degli altri”. Se c’è qualcosa che infatti scoraggia l’uomo a occuparsi del suo simile questa è la vulnerabilità. E’ proprio quando ci si riscopre vulnerabili che l’uomo si dedica con tutte le sue forze a salvare sé stesso. La vulnerabilità, al contrario di ciò che sogna Ludovica Scarpa, è l’arma più efficace di cui il destino dispone per tagliare i legami, anche quelli all’apparenza indissolubili. La vulnerabilità di Agamennone di fronte alle ire di Artemide lo porta a far sacrificare l’innocente figlia Ifigenia, così come la vulnerabilità di fronte alla falce della Morte porta l’anziano Ferete, con la moglie, ad abbandonare alla sua sorte il figlio, l’argonauta Admeto. E’ lapalissiano ricordare che il senso di vulnerabilità, così come quello di scarsità, che certamente ci attende alla fine di questa pandemia, non sono esattamente i migliori alleati della condivisione e dell’umanitarismo, e ciò sarà vero a maggior ragione in società, come quelle democratiche occidentali, nelle quali il liberalismo ha potuto operare a lungo nel rafforzamento dell’Io contro al “pericoloso Noi”. Il “solo un Io ci potrà salvare” della Scuola di Francoforte, potrebbe diventare uno dei più grandi boomerang della storia filosofica mondiale, e sarebbe l’umanitarismo ingenuo a riceverlo in fronte.

Il signore delle mosche”, di William Golding, narra di come un gruppo di ragazzini sopravvissuti ad un disastro aereo si ritrovino su di un’isola deserta, cercando di darsi un autogoverno e di sopravvivere in comunità. All’inizio le convenzioni sociali sembrano reggere, ma la prolungata scarsità di risorse e la vulnerabilità portano ad una regressione bestiale verso la barbarie. Basterebbe già questo esempio letterario per smontare gli auspici della Scarpa, se non fosse che la storia abbonda di per sé di esempi che dimostrano come i contesti di scarsità e vulnerabilità siano stati le fucine di guerre e persecuzioni. Il dramma della Shoah nasce sull’onda delle terribili crisi inflattive della Repubblica di Weimar, il Fascismo nasce sull’onda della diffusa povertà nella società italiana a causa del conflitto appena terminato e della grave epidemia di influenza spagnola. Più indietro, le carestie e le epidemie che flagellarono l’Europa (ed in particolare la Germania) all’inizio del Seicento, ebbero un ruolo fondamentale nell’esacerbare le tensioni religiose e dinastiche che portarono alla terrificante Guerra dei Trent’anni, ovvero alla prima grande guerra combattuta simultaneamente in più continenti; va aggiunto anzi che le terribili epidemie che flagellarono l’Europa durante la medesima guerra (tra cui la celebre “peste manzoniana”), non riuscirono in alcun modo a fermarla. Ancora più indietro, l’ecatombe causata dalla terribile peste nera che colpì l’Europa alla fine della prima metà del Trecento, causò una penuria di uomini tale da diventare molla per una decisa razionalizzazione delle risorse disponibili, che si tradusse in un forte progresso scientifico e tecnologico nei secoli successivi: un vero e proprio detonatore che portò all’esplosione del Rinascimento e più tardi dell’aggressione colonialista degli Europei ai danni del resto del mondo, così come è importante ricordare che proprio la falce della Peste Nera sancì l’inizio della crisi inarrestabile dei primi esprimenti “democratici” medievali, ossi i Comuni e le prime repubbliche corporative, che furono piano piano riassorbiti dagli antichi stati dinastici e dalle nuove signorie autocratiche.

Per questo motivo cadono i sogni e gli auspici di Ludovica Scarpa: il processo che ci porta alla coscienza della nostra vulnerabilità, è il medesimo che ci porta alla coscienza anche di quella altrui, con tutte le conseguenze del caso. Questo è sempre stato l’uomo, fin dai tempi più primitivi nei quali non si sapeva minimamente cosa fosse una “zoonosi”, e nonostante la religione delle masse, largamente dominante e sommamente potente, si presentasse a nome della misericordia, della solidarietà e del perdono. Cosa possa saltare fuori dalle società atee di oggi possiamo solo lasciarlo immaginare al lettore. Infine, la conclusione:

In una economia solidale non ci sarà spazio per la paura: reddito di cittadinanza (a livello europeo inizialmente, e poi mondiale) e simili accorgimenti renderanno possibile a tutti lo studiare per tutta la vita, coltivando le risorse nascoste nei desideri di tutti, distribuendo competenze. Artisti e piccoli artigiani e altre categorie con reddito incerto godranno sostegni economici per mantenere viva la cultura, anzi le culture.

La nuova umanità impara a voler bene alla vita così come è: accettando i problemi e risolvendoli insieme, con razionalità, scienza, ragionevolezza, conoscenze di esperti e studiosi. La nuova indicazione universale che si aggiunge alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (non a caso stilata dopo l’ultima grande catastrofe mondiale, la Seconda Guerra Mondiale) è: non danneggiare. Né il pianeta, né gli umani, né la natura.”

Tralasciando l’esordio a proposito dell’economia solidale (i cui esiti possono ben essere riassunti dalla vicenda storica sovietica), si nota la frase “la nuova umanità impara a voler bene alla vita così com’è”. Probabilmente poco importa all’autrice il fatto che questa frase faccia a pugni con la sua continuazione, nella quale sono menzionate “razionalità, scienza, ragionevolezze e conoscenze di esperti e studiosi”. Precisamente parlando, razionalità e scienza, nonché gli studiosi, nascono precisamente per l’incapacità umana di accettare “la vita così com’è”. Su questo problema si era già soffermato Kant nel 1784 nel suo saggio “Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, denotando, in maniera senz’altro più lucida, come il motore del progresso della specie umana non fosse la concordia, bensì proprio “l’insocievole socievolezza” (ungeselliche Geselligkeit), ovvero la tendenza, tipicamente umana, a rifiutare un organicismo edenico ed egualitario, per privilegiare una competizione, tra individui e gruppi sociali, che li porta ad associarsi e dissociarsi secondo necessità. E’ precisamente l’antagonismo, tra singoli e tra nazioni, a portare l’uomo a svilupparsi (per sopraffare l’altro uomo e l’altra nazione). Senza questo antagonismo “tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico; essi non colmerebbero il vuoto della creazione rispetto al loro fine di esseri razionali. Siano allora rese grazie alla natura per l’intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione della vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio!”.

Un assioma, quello kantiano, che può ben essere comprovato dalle innumerevoli tecnologie, originariamente nate in ambito militare, che oggi addolciscono la vita di molti di noi, a cominciare da internet. Il tutto si conclude con un accenno alla Seconda Guerra Mondiale, elevata al rango di catastrofe palingenetica che avrebbe partorito la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (nonostante ne esistesse già un’altra da più di un secolo e mezzo). Anche qui, il paragone tra Seconda Guerra Mondiale e Coronavirus regge soltanto fino a che indugiamo sul piano impressionistico dell’immagine retorica: scendendo nel piano dell’oggettività storica possiamo invece acclarare che la Seconda Guerra Mondiale non fu un accidente impersonale della natura, ma appunto una guerra, scatenata da uomini per eliminarne degli altri ed imporre un ordine politico diverso dal precedente, e sarebbe altrettanto lapalissiano ricordare che il prezzo della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo furono le forche di Norimberga, che vennero erette proprio perché l’uomo non poteva accettare la brutalità e la banalità del male, ovvero “la vita così com’è”. Ludovica Scarpa ricade dunque pienamente, citando il conflitto mondiale, nella contraddizione kantiana dell’insocievole socievolezza, che ammette il progresso solo al prezzo delle ecatombi, squalificando però così ogni suo auspicio utopistico sul “non danneggiare”. Al contrario, il danno, inflitto o subito, sembra essere precisamente ciò che trae l’uomo dagli abissi dallo Stato di Natura all’empireo del progresso tecnologico. In questa prospettiva, la ragione diventa strumento principale della natura stessa, e si concentra precisamente nella capacità di infliggere il danno, o quantomeno di stimolarlo affinché si compia il segreto disegno storico che il divenire si prefigge. La ragione emerge dunque nella sua disarmante strumentalità, così come, probabilmente, l’umanità stessa, all’interno di un grande copione nel quale le comunità possiedono un unico imperativo: fare qualsiasi cosa pur di non cadere dal palcoscenico.

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