Nietzsche e noi. Il filosofo è ancora senza eredi?

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Un secolo vent’anni e tre giorni è il tempo che è andato a scorrere senza che noi eredi abbiamo ancora preso effettivo ed efficace possesso del lascito del filosofo di Röcken, cantore del crepuscolo di tutti gli idoli e della trasvalutazione di tutti i valori. Ripetere pedissequamente le tesi del filosofo sarebbe un inutile accademismo del quale probabilmente lo stesso Nietzsche sarebbe stato offeso, mentre diverso sarà cercare di cogliere il vero lascito testamentario della sua filosofia per noi uomini del secolo XXI. Solitamente, i nemici di Nietzsche tendono ad attribuirgli, almeno parzialmente, la paternità del moderno nichilismo; accusa ingiusta, se consideriamo che egli stesso già ammetteva di descrivere un fenomeno, quello nichilistico e della caduta dei valori, già in atto da secoli (se non da millenni) prima di lui. Che infatti il nichilismo non costituisse un’infestazione della storia il cui sintomo sarebbe la decadenza dell’Occidente era già noto a Nietzsche, tanto che per il filosofo, riprendendo un’espressione heideggeriana, esso risponde più al concetto di logica interna, o legge di espressione del fenomeno storico stesso.
Il processo che conduce dalla svalutazione alla trasvalutazione, che si può riassumere sotto il termine generico di nichilismo, si può quindi delineare quasi come una forza connaturata alla stessa volontà di potenza, laddove il nichilismo prenderebbe la forma di lente utile a decifrare la realtà secondo gli obbiettivi dettati dalla volontà di potenza stessa. Di fronte alla più brutale verità consistente nell’inesistenza di qualsiasi verità che non sia un obbiettivo determinato dalla volontà di potenza, Nietzsche controbatte che tale stadio di nichilismo estremo ed attivo non consista nella glorificazione del nulla, quanto piuttosto nella creazione di uno stato di vuoto preliminare alla generazione, alla tra-azione pneumatica di nuovi valori e posizioni di valori secondo piacere e gusto della nostra volontà di potenza, fuori dalla quale non sarebbe riconosciuto altro canone od altra legge di misura. E’ questo vuoto, che emerge dal cambiamento di posizione di tutti i valori, a rendere possibile, sempre secondo volontà di potenza, l’attribuzione di nuove peculiarità a tutto l’esistente.
Spogliato dall’estraniazione che si era inconsapevolmente auto-imposto donando aure e proprietà a natura ed oggetti, l’uomo nichilista sperimenta la libertà di donare sé stesso e re-incantare secondo sua volontà il mondo che lo circonda. Il disincanto del mondo, l’Entzauberung, è solo un passo doloroso da compiere in vista di un re-incanto del mondo che non sia più inconsapevolmente subito tramite la deformazione inconsapevole delle forme a priori kantiane, ma che invece sia consapevolmente praticato ed esperito tramite la volontà di potenza.
Il messaggio di Nietzsche è un invito alla consapevolezza. L’uscita da uno stato di ingenuità iperbolica è l’uscita dall’ignoranza sulla vera natura dei valori. Qui, come già notato da Martin Heidegger nel suo “Nietzsche”, il filosofo sassone è al contempo il più grande nichilista ed il più coerente erede dell’illuminismo. Il cogito ergo sum di Descartes viene interpretato in maniera radicale laddove l’uomo non esercita il suo ruolo teorizzato da Protagora di “misura di tutte le cose” solamente in senso passivo, vale a dire come lo intendevano i positivisti e gli scienziati contemporanei di Nietzsche, ma piuttosto in senso attivo, laddove l’uomo accettava, in un mondo che appariva come volontà e rappresentazione, il ruolo di arbitro, misuratore, creatore, insufflatore di tutti gli esseri e gli enti. L’uomo diventa qui autosufficiente, dice di sì alla vita prendendo possesso del “suo” mondo. E’ lo stato del cosiddetto nichilismo classico-estatico, ossia un “pensare in modo divino”. Si ripropone qui, forse consapevolmente, la facoltà edenica che Dio dona ad Adamo quando, presentandogli gli animali ed ogni cosa del mondo, intende “vedere come egli li avrebbe chiamati” (Genesi 2:20), concedendo all’uomo la facoltà di nominare, ossia dare un nome, a ciò che esiste. L’atto di consapevolezza è dunque liberarsi dell’ingenuità. L’uomo pone sempre sé stesso come misura di tutte le cose, e questa non è una scoperta o una conquista nè dei Lumi nè di Protagora. L’elemento di novità e l’atto di rivolta al quale ci chiama Nietzsche è la presa di consapevolezza che siamo noi stessi i fabbricanti della lente aprioristica che dona alla realtà un alone salvifico di tragicità. Nel pensiero di Nietzsche, l’uomo è alla vigilia di una totale rivoluzione che gli permetterà di essere la forma a priori di sé stesso. Lo stato di beatitudine edenica che il nichilista estatico-attivo si auto-conferisce, è descritto in un passo de “La nascita della tragedia” (1871) dove si afferma che “l’unico soggetto veramente esistente veramente esistente celebra la propria redenzione nell’apparenza”. Il Soggetto di cui si parla non è però nè l’uomo stesso né Dio. Si tratta piuttosto di una relativa personificazione panteistica dello stesso eterno ritorno e delle leggi concatenate della volontà di potenza. Questo fatto però non depriva in nessun caso l’uomo del suo ruolo di nominatore e re-incantatore del reale. La facoltà artistica che anima l’uomo incantatore è pienamente connaturata al suo ruolo drammatico che all’ “unico creatore e spettatore di quella commedia dell’arte […] procura un godimento eterno.” La consapevolezza a cui chiama Friedrich Nietzsche è la presa di coscienza del ruolo drammatico, ossia artistico, dell’uomo in modo da permettergli di avere un ruolo attivo e creativo nel metateatro del divenire. Un approccio creativo ed artistico al dramma cosmico che solo può considerarsi come approccio vitale e vero al turbinio cangiante, violento e brutalmente innocente del cosmo. Riecheggiano qui le parole di Schiller come quelle di Herder, laddove ad esempio in “Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità” (1774), il filosofo prussiano sostiene la necessità storica degli “abusi inevitabili e benigni” necessari alla liberazione del mondo dalla “snervata freddezza”.
E’ questa però una prospettiva che non si lascia facilmente ingabbiare dalle logiche dialettiche hegeliane tanto popolari all’epoca di Nietzsche. Non esiste alcuna necessità a trainare o dirigere la storia, ma solo l’inesauribile guardare oltre della volontà di potenza. Una volontà di potenza che è intimamente conservatrice laddove essa si impone il fine di replicare costantemente sé stessa pur all’interno di una prospettiva di mutamento continuo. E’ il punto di intersezione nella quale la filosofia conservatrice e quella nietzscheana vengono a incontrarsi. Come ribadito nei nostri scritti per il Centro Studi Machiavelli, da sempre l’animo conservatore nutre profondo sgomento di fronte alla visione del vuoto. Proprio perché è il conservatorismo è da sempre il depositario del mito, e dunque il più grande e sofferente orfano lasciato dall’Entzauberung, esso è anche l’attore più restio all’interpretazione del suo ruolo, al quale pure la legge di sopravvivenza (ossia il proposito da parte di altre volontà di potenza di strangolarlo), lo invitano brutalmente. Da sempre scettico a intendere la libertà come un’auto-investitura, preferendo invece la sua giustificazione auguralmente etica e morale rintracciata nei fatti e negli accidenti della natura e nei “segni”, il conservatore stenta a prendere possesso della sua facoltà e potenza più terribile. Paralizzato dalla sindrome di Stendhal di fronte allo spettacolo della natura e del divenire, egli, come ogni artista talentuoso, si pone scrupoli laddove invece l’ignorante, bellamente convinto di sapere tutto, si butta a capofitto nella mitopoiesi e nella tessitura di narrative tanto nuove quanto sconclusionate.
E’ la fase postmoderna che ben conosciamo, nella quale mai come oggi il mondo si sovrappone alle due parole schopenhaueriane di volontà e rappresentazione, entrambe corroborate da una feroce difesa a oltranza della filosofia del linguaggio, vero e proprio grimorio dei re-incantatori del reale; l’epoca delle narrazioni e delle meta-narrazioni, alle quale non si crede se non per libera volontà di esperire un mondo diverso da quello disincantato dall’orrore di Auschwitz e inzuppato nei bagliori delle luminarie illusorie del giorno tecnico. Nell’impossibilità di vendicarsi sul nefasto noumeno, il filosofo postmoderno fa a pezzi il fenomeno. Il messaggio di Nietzsche però si limita a prendere atto della già avvenuta distruzione delle vecchie lenti fenomeniche di decifrazione della realtà. Qui tanto il vetero-conservatore, magari religioso, quanto il postmoderno dei diritti appaiono come figure avviluppate nella frustrazione: il primo rimpiange le forme perdute, il secondo rimpiange di aver preso parte troppo marginalmente (o di non aver preso parte affatto) al processo di abbattimento dei vecchi idoli (motivo che fa emergere la necessità ossessiva di individuare obbiettivi sempre nuovi e più insospettabili per il vetriolo dilavatore della critica). Nietzsche chiama all’introspezione, che sia al contempo anche apertura e ricettività all’influenza ortogonale delle volontà di potenza della natura, che devono potersi tradurre liberamente nel processo creativo ed artistico dell’uomo. Il “sì alla vita” si esplicita come licenza, concessa dall’uomo alla natura, di riaddomesticare l’uomo stesso alla condizione di “bestia bionda”, insegnandogli nuovamente la predazione come valore, ma spogliandola al contempo delle mere basse necessità imposte dalla mera sopravvivenza, traducendo l’esercizio tanto della creatività quanto della crudeltà in una nuova trasmutazione e trasvalutazione estetica dell’esistenza e dell’esistente. E’ la libertà autentica che sceglie ed accetta scientemente i suoi supplizi, come il Prometeo di Eschilo, in vista di un futuro soccorso da prestare agli Dei che, privi di aiuto, stanno per tramontare. Qui la libertà autentica si rivela nel suo più nobile e più terrificante attributo: la privazione della paura della morte.
Nell’abbattimento e nella riedificazione del confine tra realtà e immaginazione, la presa di potere dell’estasi intossica letargicamente la fredda realtà, liberandola dalla gabbia d’acciaio che la inchioda allo stato di necessità delle semplici forme di vita. Nella beatitudine concessa dal nulla (si veda in merito la triste profezia di Sileno a re Mida), il nichilista si proietta nella notte dell’inesistenza come una freccia iniettando la sua vita sotto forma di pura viriditas nell’alambicco sublimatore della volontà di potenza, trasmutandosi in pura energia posta al servizio della volontà di potenza stessa e del “guardare oltre” medesimo, non prima di averli addestrati alle virtù nazionali e di schiatta tramite le categorie herderiane che presiedono alle etnogenesi. E’ l’esercizio supremo della libertà, dove dialetticamente giungono a sintesi la luce benigna della tradizione ed il lume tecnico degli enciclopedisti; qui la libertà si afferma per sé stessa, e le nostre convinzioni si impongono, per dirla con Isaiah Berlin, semplicemente perché sono nostre.
Alla sindrome di Stendhal che inchioda ad un passato di fantasmi il conservatore, fa da contraltare la sordità del postmoderno che gli impedisce di accettare la discesa ortogonale delle leggi di natura all’interno del suo animo. Ne risulta una condizione in cui la volontà di potenza sopravvive soltanto mutilata nella sua forma di capriccio, e dunque nuovamente schiava di giustificazioni utilitarie, quand’anche cammuffate da beni tanto immateriali quanto irrazionali quali l’eguaglianza, la pace e la libertà dal bisogno. Per questo motivo l’eredità di Nietzsche appare ancora come inutilizzata, coperta di polvere e abbandonata, nonostante la successione avvenuta. Il fossato, che si vuole insondabile, tra concezioni arborescenti e concezioni rizomatiche tracciato da Gilles Deleuze e Félix Guattari ne “L’Anti-Edipo“, impedisce ad un uomo ancora frammentato al suo interno (mutilato da chi lo vorrebbe massificato nella pastoia della plebe collettiva) ed al suo esterno (da chi lo ha resto schiavo dell’individuazione tramite la divisione del lavoro) di assurgere al ruolo che la consapevolezza ieratica e minimale di Nietzsche gli ha pur reso possibile.
Per mera questione di abilità congenita nel parlare il brutale linguaggio della natura, più che per acume e lungimiranza, saranno però i nuovi conservatori a lanciare questo ultimo, definitivo “sapere aude!” sui popoli dell’Occidente.
Marco Malaguti
“Nietzsche” by eozikune is licensed under CC BY-SA 2.0
Correlati
Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.