Lettera ad un sovranista sulla Scienza

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
In tempi di pandemia, assieme ad una moltitudine di neologismi ed espressioni tipiche del gergo medico e virologico, si è resa celebre anche un’altra definizione, prima caduta relativamente in disuso, ovvero la cosiddetta dittatura sanitaria. Il termine, nel contesto dell’attuale pandemia, ha assunto esplicitamente il significato letterale della parola, laddove l’aggettivo “sanitario”, ossia afferente alla salute, è correlato a doppio filo alla salute fisica delle persone, nonostante le origini della definizione rimandino al più ampio concetto di origine latina di salus publica. In tale senso lo intendevano, non immuni da un certo neoclassicismo, i giacobini che instaurarono il Comitato di Salute Pubblica nel 1793. Il termine oggi, almeno nell’attuale stato di pandemia, ha assunto un significato limitaneo ed a volte coincidente con quello di tecnocrazia, in particolare per quanto riguarda le sempre maggiore e fattuale delegazione di poteri, sovente speciali, a scienziati, in particolare medici, od a gruppi di questi. Il Comitato Tecnico-Scientifico, spesso abbreviato nella criptica sigla CTS, viene presentato dai nemici dell’esecutivo come un inquietante governo ombra, le cui funzioni sanitarie ed il termine “comitato” non possono non far pensare, volutamente, al Comitato di Salute Pubblica giacobino. Il paragone, sovente utilizzato dalle opposizioni, è peregrino fino ad un certo punto se consideriamo il fatto che il Comité si distinse proprio per il ruolo centrale che gli scienziati, per la prima volta nella storia, vi ricoprivano. Dei dodici membri del Comitato ben due erano uomini di Scienza: il matematico Lazare Carnot e l’ingegnere Claude-Antoine Prieur de la Côte d’Or, cofondatore dell’École Polytechnique di Parigi. Dopo pochi mesi, anche il matematico Gaspard Monge salì all’importante rango di Ministro della Marina.
Per quanto questa potesse essere la vulgata per le masse di allora, l’arrivo al potere di un così gran numero di scienziati non fu tuttavia un’operazione disinteressata volta a stabilire finalmente un primato del merito a fronte dell’antico regime, dominato invece dai privilegi di nascita e di casta. Diversamente da letterati, filosofi e teologi, infatti, gli scienziati avevano un grande asso nella manica, che li rendeva (e li rende) al contempo appetibili alleati e in apparenza inoffensivi verso le ambizioni degli uomini politici: la presunta neutralità della Scienza e delle branche del sapere di cui si occupavano. A differenza degli umanisti, gli scienziati erano specialisti; se interpellati fornivano risposte che potevano essere giudicate valide o meno a seconda degli esiti della pratica sperimentale ma difficilmente si avventuravano nella codificazione di prospettive filosofiche e politiche, e questo li rendeva i partner privilegiati per un potere che aveva bisogno di consolidarsi velocemente come quello rivoluzionario francese dell’ultimo decennio del Settecento. Oltre a ciò, va considerato che le strutture deputate allo studio delle materie umanistiche, in particolare le Università, assolvevano fin dalla loro comparsa, più al compito di forgiare uomini-ingranaggi organici al vecchio sistema di potere dominante (basato principalmente su teologia e filosofia) che non a sviluppare il libero pensiero e l’attitudine scientifica negli studenti. Da sempre sotto l’ingombrante tutela di papi e sovrani, le Università avevano ricoperto un ruolo tutto sommato secondario nella rivoluzione scientifica appena avvenuta. Era fresco il ricordo della censura imposta dagli accademici della Sorbona all’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, così come si era ben consci del fatto che l’istituzione universitaria, ovunque in Europa, ben poco avesse fatto per la promozione della Scienza e della libertà. Ancora figlia della mentalità aristotelica, tomistica e medievale, l’università dell’epoca vedeva ancora la preminenza netta, in dignità ed emolumenti, dei professori degli studi filosofici, giuridici e teologici, ovvero quelli che più erano in grado di cementare l’autorità del potere costituito. Il ruolo assolutamente secondario giocato all’interno delle università da giganti della rivoluzione scientifica come Galileo Galilei, titolare di una cattedra di matematica ma costretto a dedicarsi all’astronomia nel tempo libero, ed Isaac Newton, non contribuì alla buona fama dell’istituzione universitaria presso i giacobini, che la vedevano come un bastione dell’antico regime piuttosto che come un tempio del sapere. Esperimenti fondamentali per la rivoluzione scientifica come la sintesi dell’acqua di Antoine-Laurent Lavoisier o il funzionamento delle macchine elettriche di Jean-Antoine Nollet avvenivano in laboratori di fortuna, non di rado in salotti privati, e l’idea di spazi di laboratorio finanziati delle autorità dedicati alla sperimentazione scientifica erano, salvo rarissime eccezioni come l’Accademia del Cimento di Firenze, ancora sconosciute.
Per imporre la nuova visione del mondo rivoluzionaria occorreva in buona sostanza non soltanto acquisire le redini del potere politico, ma fare piazza pulita del vecchio mondo accademico e del suo organicismo. La neutralità tendente al meccanicismo della Scienza moderna e la progressiva parcellizzazione dei saperi, assieme agli indiscutibili vantaggi bellici ed economici che le nuove scoperte comportavano, convinsero le autorità rivoluzionarie che gli scienziati erano gli uomini giusti sui quali puntare. La Rivoluzione Francese diventava anche una rivoluzione del sapere in senso stretto: in pochi anni, in Francia, la gerarchia dei saperi venne rovesciata e gli umanisti che un tempo costituivano il bastione principale del vecchio regime si ritrovarono, per dignità accademica e prestigio politico, all’ultimo posto. Vittima della sua progressiva specializzazione in branche e sotto-branche, la Scienza era infatti incapace di codificare sintesi ideologiche nuove che potessero insidiare l’erigendo potere rivoluzionario e successivamente imperiale.
Messe sottochiave le conquiste dei Lumi, la filosofia ed i saperi teoretici avevano dato tutto ciò che vi era da dare, ed occorreva perciò mettere la parola fine ai privilegi degli umanisti, che avrebbero potuto pericolosamente deviare dall’ortodossia ideologica del nuovo potere costituito. I cosiddetti Idéologues, che tanto avevano fatto per la diffusione delle idee illuministiche, avevano fatto il loro tempo; il nuovo potere aveva ora bisogno di una nuova casta di esecutori efficienti in grado di risolvere rapidamente problemi di ordine economico e bellico, pur senza nutrire ambizioni politiche e culturali d’alcun tipo: un ritratto che si attagliava perfettamente a scienziati e ingegneri. Molti uomini di lettere e filosofi illuministi, in particolare i più vicini alle idee di Rousseau, attaccarono questa impostazione, ma a loro arrivò, in pieno Terrore, la risposta del chimico giacobino, nonchè deputato della Convenzione, Antoine-François Fourcroy:
“Il rimprovero mosso alla rivoluzione di aver fatto ripiombare le arti nella barbarie non è che il frutto dell’odio nei confronti della Rivoluzione stessa“
Coerentemente con tale disegno, una volta giunto al potere Napoleone, egli stesso matematico, il nuovo potere imperiale privilegiò e sovvenzionò lautamente l’École Polytechnique, le Écoles de Santé e gli studi scientifici dell’Institut National, ma soppresse la classe di Sciences morales et politiques di quest’ultimo, chiudendo così la partita sia con i filosofi illuministi di impostazione protoromantica allievi di Rousseau, sia con quei meccanicisti come Condorcet che, sulla scia di Bacone, intendevano realizzare una tecnocrazia nella quale il ruolo di scienziato e quello di decisore politico coincidessero. Il fatto che il prestigio degli scienziati non vivesse di luce propria ma dovesse tutto alle esigenze utilitarie del nuovo assetto di potere era del resto già stato testimoniato, in epoca rivoluzionaria, dalla sorte di Lavoisier. Pur essendo con ogni evidenza il più grande scienziato vivente nella Francia dell’epoca, tale status non bastò a metterlo al riparo da una pretestuosa accusa di tradimento e dalla conseguente ghigliottina durante il periodo del Terrore. “La Repubblica non ha bisogno di sapienti“, tagliò corto il giudice Jean-Baptiste Coffinhal che lo condannò.
Gli scienziati capirono l’antifona, ma uomini come Auguste Comte, padre del positivismo, ebbero un ruolo fondamentale nel cercare di dare consapevolezza politica alla classe degli scienziati, fino ad allora meri solvitori di problemi per conto di autorità e committenze. Comte, tuttavia, riconobbe come un approccio meramente distruttivo non sarebbe stato ulteriormente utile. Liquidato l’antico assetto politico esattamente come quello teologico, l’anti-assolutismo e l’anticlericalismo non potevano più ricoprire alcun ruolo nella costruzione di una nuova società basata su di un’etica nuova. Se l’unico orizzonte etico e morale doveva infatti essere delineato dalla Scienza, risultava chiaro agli occhi di Comte come la figura dello scienziato e quello del decisore politico dovessero piano piano andare a coincidere, chiaramente “a vantaggio dell’uomo”. Con grande franchezza, nella sua dispensa “Plan des travaux scientifiques nécessaires pour réorganiser la société” del 1822, il filosofo di Montpellier auspicava che
“nel sistema che si deve costituire, il potere spirituale sarà nelle mani degli uomini di scienza e il potere temporale apparterrà ai capi delle opere industriali”.
Per Comte occorreva quindi “elevare la politica al rango delle scienze di osservazione”. Era la politica quindi a doversi elevare al rango della Scienza, e non viceversa. L’affermazione, che all’epoca faceva scalpore, non era tuttavia nuova, ed era già stata ampiamente teorizzata nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone, nella quale gli scienziati, riuniti in una sorta di unico gruppo di ricerca, governano dalla “Casa di Salomone”, compiendo osservazioni ed esperimenti. Tale impostazione tecnocratica in realtà compare e ricompare carsicamente nella storia, ma difficilmente si è andati più vicini a tale utopia, benchè la distanza sia ancora ragguardevole, rispetto agli attuali tempi pandemici. Come già intuito dai giacobini e da Napoleone, la continua ed instancabile parcellizzazione dei saperi ha quantomeno rallentato l’affermazione di un “governo degli scienziati”, ma nondimeno la progressiva tecnicizzazione della società ha richiesto una creazione ed un impiego sempre più massivi di questi ultimi, fino a rendere talmente sottile il confine tra Scienza e politica da risultare difficile capire se sia la Scienza a governare per conto della sfera politica o viceversa. L’iper-specializzazione delle diverse branche del sapere scientifico aveva fatto sì, in realtà già dall’Ottocento, che i filosofi non riuscissero più a stare al passo con i progressi di tutte quante.
L’idea aristotelica dello scienziato-filosofo del Medioevo e del Rinascimento era definitivamente tramontata, ed era già inconcepibile, per chi avesse condotto approfonditi studi di filosofia, dedicarsi con la stessa profondità anche alla matematica, alla fisica, alla medicina, alla chimica, alla botanica, all’astronomia, alla geologia e più in generale a tutte le nuove scienze. Questo sganciamento dei filosofi dagli studi scientifici favorì una incomunicabilità progressiva tra le due sfere del sapere, che, nel campo degli scienziati, alimentò il pregiudizio di un’assoluta inutilità dei saperi umanistici e più in generale delle etiche e delle morali precedenti ai fini del benessere. D’altro canto, l’assenza di qualsiasi orizzonte metafisico nell’animo di questi scienziati specializzati portò filosofi come José Ortega y Gasset ad esprimersi come segue:
“Si tratta [lo scienziato moderno ndr] di una persona che, di tutte le cose che una persona veramente colta ha l’obbligo di conoscere, ha familiarità soltanto con una scienza particolare, anzi, anche di questa scienza conosce quella piccola parte nella quale lui stesso è impegnato in ricerche. Giunge al punto di dichiarare una virtù il non occuparsi per nulla di tutto ciò che rimane fuori dello stretto dominio che egli stesso coltiva, e denunzia come dilettantesca la curiosità che aspira alla sintesi di tutte le conoscenze. Accade talvolta che, pur segregato nella ristrettezza delle sue vedute, effettivamente riesca a scoprire nuovi fatti ed a far avanzare la sua scienza (che egli appena conosce), e a far progredire con ciò l’integrale pensiero umano, che egli ignora con piena determinazione. Come ha potuto esser possibile qualcosa di simile e come può continuare? Perché siamo costretti a rimarcare l’assurdo di questo fatto innegabile: lo sviluppo delle scienze sperimentali è stato spinto fino a una notevole ampiezza per opera di persone incredibilmente mediocri e anche meno che mediocri.”
Una critica feroce, che trovò tuttavia l’approvazione anche di alcuni esponenti della comunità scientifica come il premio Nobel per la fisica Erwin Schrödinger. La rimarcazione della presunta “mediocrità” degli uomini di Scienza attinge in realtà alla millenaria tradizione del mai completamente sopito humus aristotelico-tomista della cultura europea. La natura estremamente umana di molti scienziati, fatta di avidità e interesse, così come i frequentissimi battibecchi interni alla comunità scientifica (che anche noi negli ultimi mesi abbiamo imparato a conoscere) così lontani dalle pretese capacità inappellabili di salvazione della Scienza, hanno senza dubbio contribuito a gettare un’ombra fosca di sfiducia sugli scienziati, ma la contemporanea assenza della filosofia e dell’epistemologia nel campo del dibattito politico ha fatto sì che non emergesse comunque un’alternativa, anche solamente ideale, alla tecnocrazia medesima. Gli ideali baconiani rimangono quindi totalmente saldi al loro posto nella Casa di Salomone, per quanto sia andata decomponendosi la fiducia nella casta che doveva portarli avanti, quella degli scienziati.
Se gli scienziati hanno fallito ma la Scienza no, l’unica conseguenza logica e razionale è che la Scienza dovrà fare a meno degli scienziati, ossia degli uomini. Tale assioma rappresentava evidentemente un’assurdità ai tempi di Bacone, di Condorcet e di Comte, ma non nella nostra contemporaneità fatta di robotica ed intelligenze artificiali. Dati per assodati, come unici orizzonti del progresso scientifico, i parametri di guadagno ed efficienza, nulla vieta, almeno in linea teorica, di pensare alle macchine come ideali legislatori di una società orientata al benessere. In un’epoca di sfiducia verso la politica, le istituzioni ed i vertici tanto dell’economia mondiale quanto della comunità scientifica (sempre accusata, spesso a ragione, di essere al servizio dei potenti), nulla potrebbe essere tanto rassicurante per le opinioni pubbliche quanto l’affidamento della sfera politica a quella degli algoritmi, i quali del resto si dimostrano molto più efficacemente abili nel semplificarci la vita rispetto a politici impegnati a recitare la parte di turisti gastronomici e appassionati di fumetti.
L’iper-specializzazione delle scienze ha del resto avuto un ruolo fondamentale nel nutrire la progressiva sfiducia delle masse nei confronti della Scienza. Studi sempre più approfonditi, linguaggi sempre più gergali e tecnici, testi di riferimento sempre più indecifrabili hanno reso sempre più credibile l’immagine, cara alle teorie del complotto, degli scienziati come conventicola di squilibrati intenta ad oscuri disegni per l’ottenimento del dominio del mondo. Il fatto che ormai la totalità delle ricerche e degli esperimenti scientifici avvengano, non certo per volontà di nascondersi, nei laboratori e nei centri di ricerca, lontani cioè dagli occhi delle masse, rafforza l’idea favolistica che in tali gabinetti scientifici accadano crudeltà inenarrabili, e che foschi disegni maligni vi siano perseguiti. L’archetipo del dottor Frankenstein e dello scienziato pazzo si è ben radicato nella cultura occidentale, tanto da essere diventato quasi una sorta di maschera della commedia dell’arte, e la partecipazione entusiasta di molti scienziati agli sforzi bellici del nazismo, così come a quelli dei vari programmi nucleari militari, non hanno contribuito a migliorarne la fama. Ma se, come abbiamo ricordato, l’immagine degli scienziati è già ampiamente screditata, non lo è quella della Scienza, verso la quale siamo ormai completamente dipendenti per quanto riguarda il nostro benessere quotidiano e la nostra salute. Le masse che accusano gli scienziati di essere dei cospiratori contro la salute pubblica sono quasi sempre le medesime che poi richiedono assistenza sanitaria di primo livello per tutti, nonché tecnologie sempre più performanti (e a basso costo) per il proprio divertissement.
Tracciare quindi uno iato tra Scienza e scienziati può essere estremamente pericoloso, in quanto rischia di slegare la prima dagli strumenti di controllo dei secondi, i quali per quanto possano essere “umani” rimangono, appunto, uomini come noi. In tal senso, il gioco dello scaricabarile non aiuta. Il teatrino di accuse tra potere politico e Comitato Tecnico-Scientifico a cui stiamo assistendo non è che l’ennesima ripetizione di un copione già visto, dove autorità politiche e uomini di Scienza cercano di rimpallarsi a vicenda le responsabilità.
Pacifisti come Albert Einstein e Robert Oppenheimer, che ebbero un ruolo fondamentale nella creazione dell’ordigno nucleare e, nel caso di Einstein, anche nel suo uso, scaricarono poi la responsabilità dell’utilizzo della loro creazione sulle autorità politiche, le quali replicarono, tramite il senatore democratico Lyndon Johnson, che “voi avete creato la bomba, e adesso volete buttarla nel mezzo dell’oceano perché ha reso il mondo insicuro”. Gli scienziati del Progetto Manhattan, allettati dai benefici economici e dalle promesse di celebrità non avevano lesinato supporto e appoggio al programma nucleare militare degli Stati Uniti, ma non intendevano sobbarcarsene la responsabilità morale; d’altro canto i politici, sottoposti costantemente al giudizio dell’opinione pubblica, non intendevano minimamente farsi carico della responsabilità etica e politica che comportava l’aver commissionato e sovvenzionato una tecnologia tanto distruttiva. In questa “terra di mezzo” tra le due sfere proliferano i mostri, che siamo ormai impossibilitati a riconoscere a causa della cronica mancanza di un approccio unitario ai problemi scientifici così come a quelli politici. Il nostro sistema educativo, così impegnato a sottolineare costantemente i rischi di atteggiamenti ed orientamenti antiscientifici, non rimarca invece a sufficienza i rischi dell’ostilità antipolitica che una certa idea di Scienza nutre, facendo finta di non vedere che la posta in gioco finale rischia di essere non la perdita del benessere o quella della democrazia, ma la perdita della sovranità umana tout court. In tal senso, le più recenti acquisizioni nel campo dell’intelligenza artificiale e della robotica lasciano pochi dubbi, e sono ormai poche le cose che, almeno in linea teorica, un robot o un’intelligenza artificiale possano svolgere peggio rispetto ad un uomo.
La polemica contro la tecnocrazia e le classi teoretiche teorizzate da autori come Daniel Bell, James Burnham e Zbigniew Brzezinski è già ampiamente superata, e l’idea di un governo algoritmico supera ogni eventuale idea di koiné tecnocratica ancora prima che questa si instauri in posizione di dominio. In un tale contesto, il ritorno ad una prospettiva filosofica unitaria di Politica e Scienza si afferma come prioritaria per quanto concerne un orizzonte ideologico sovranista. In uno scenario come quello delineato davanti ai nostri occhi dai più recenti avanzamenti nel campo delle scienze, emerge la drammatica consunzione culturale di chi si attarda in tentativi anacronistici di difesa di concetti quali la “sovranità nazionale” prima di risolvere il problema, ancora largamente inevaso, della sovranità di specie, ovvero quella prospettiva sovranista che veda l’umanità ancora saldamente antropocentrica e non tecnocentrica. Questi due termini sembravano andare sempre a braccetto, ma oggi appaiono, in maniera preoccupante, vicini al divorzio. L’orizzonte capitalistico ed efficientistico slegato da qualsivoglia prospettiva filosofica ed etica, consegna potenzialmente il dominio della terra alle macchine, che in quanto ad efficienza e rapidità hanno da tempo superato la specie umana. Se l’uomo debba rimanere sovrano è oggi la domanda di ogni filosofo della Scienza. Che l’uomo debba rimanere sovrano è invece l’imperativo di ogni politico sovranista, un obbiettivo però impossibile da raggiungere se le due sfere, politica e Scienza, non si legittimano a vicenda in un disegno di organica coesistenza che guardi oltre la parcellizzazione sistematica della Scienza tanto quanto all’interessata ricerca di consenso a tutti i costi della politica. In tal senso, una filosofia della sovranità dell’uomo, che rimetta al centro quell’unitarietà dei saperi e dei poteri così come la immaginava Cartesio, può ancora fare molto per un mondo che ormai reputa i filosofi come inutili relitti di un passato trapassato.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.