L’allucinazione tecnocratica

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Dittatura sanitaria è una definizione ormai entrata nel lessico comune. Solitamente utilizzata dagli elettori e dagli ammiratori dei populisti, essa è usata, impropriamente, per definire l’attuale governo Conte e, più genericamente, il composito insieme di provvedimenti anti-covid imposti alle popolazioni dell’Occidente. Come già ricordato in un altro scritto, la definizione rimanda più al concetto di tecnocrazia che non alla dittatura volta a tutelare la salus publica; a ben vedere qualsiasi dittatura ha a cuore o si giustifica tramite, almeno a parole, la salute pubblica, ma questo non è mai bastato a definirle tutte come “sanitarie”. Chi oggi definisse la dittatura nazionalsocialista tedesca o il comunismo sovietico come dittature sanitarie susciterebbe perplessità, mentre chi definisce in tal modo i provvedimenti del governo Conte siede in parlamento e viene preso, perlomeno da gran parte della popolazione, estremamente sul serio. Ciò è dovuto principalmente al fatto che il progressivo erodersi del concetto di Stato a favore di quello di individuo ha convogliato maggiormente l’attenzione sul sostantivo piuttosto che sull’aggettivo. Quando pensiamo alla “salute” il primo pensiero corre alla salute del corpo non a quella dello Stato. L’inversione dei due termini avrebbe in verità un impatto diverso: se dicessimo “pubblica salute” sarebbe immediatamente chiaro che ci riferiamo alla collettività, così come quando parliamo di “pubblico impiego” è chiaro che parliamo di un ente collettivo, mentre se diciamo “impiego pubblico” ci riferiamo ad un singolo posto di lavoro, destinato ad una persona sola. L’attenzione che il lettore o colui che parla dà alla prima parola di una definizione possiede un’importanza spesso sottovalutata. Se parliamo di Scienza, un nuovo clima culturale fertile per la rivoluzione scientifica fu favorito, nel mondo anglosassone, dal modo in cui veniva definito lo scienziato nel Seicento: laddove nei paesi dell’Europa continentale si prediligeva la dicitura latina philosophus naturalis, i paesi anglosassoni usavano la definizione natural philosopher. Questo dettaglio, apparentemente insignificante, ebbe in realtà un ruolo importante nell’innesco della rivoluzione scientifica nei paesi dove ci si focalizzava di più sull’elemento della natura (ovvero sulla sua osservazione, misurazione, catalogazione etc.) piuttosto che su quello filosofico.
Tornando al punto, è precisamente la concezione individualistica di salute tipica dell’uomo occidentale moderno alla base dell’uso errato della definizione di dittatura sanitaria. L’ordine dei vocaboli non avrebbe alcuna importanza se la parola “salute” rimandasse primariamente, per ragioni culturali o storiche, alla sfera del pubblico piuttosto che a quella del privato. Lo stesso vale per la parola sanità, che in origine aveva una sfumatura più correlata all’ambito pubblico, ma che ha assunto il medesimo significato di salute, tanto che il vecchio Ministero della Sanità è divenuto non casualmente Ministero della Salute.
Vivendo in un contesto individualistico e monadico, ogni definizione che contenga la parola “salute” o “sanità” assume quindi una connotazione positiva; quando i due termini si legano a idee o parole che riguardano le sfere del potere esse non possono che comunicarci che il potere si occupa di noi, pensa alla nostra salute e se ne fa carico. L’idea che il potere pensi alla nostra salute non può che comunicare un senso di sicurezza, e non c’è taglio o spending review che non desti maggior rabbia negli elettori che quello destinato all’ambito sanitario. Perché allora la “dittatura sanitaria” suscita sentimenti così contrastanti? Il problema è essenzialmente culturale, o detto più prosaicamente, il problema sta nell’ignoranza di coloro che utilizzano quest’espressione, quindi principalmente dei populisti, che definiscono così la supposta dittatura degli scienziati, in particolare dei medici, nel contesto di attuale pandemia. Mentre la dittatura sanitaria originale, ovvero quella del Comitè durante il terrore giacobino, si giustificava tramite salute pubblica, dunque principalmente all’ambito sociale e politico, la presunta dittatura sanitaria odierna si giustificherebbe dietro l’accezione medica del termine salute. La prassi da democratura del governo esercitata tramite DPCM in barba a qualsiasi proceduralismo parlamentare si giustifica quindi dietro il paravento della scienza, non dietro quello essenzialmente politico della giustizia sociale e dell’eguaglianza dei giacobini.
Ancora una volta, va ribadito, il termine corretto da utilizzare per definire l’attuale -supposto- regime non è dittatura sanitaria, ma tecnocrazia. Alla voce “tecnocrazia”, il Dizionario di Politica Bobbio-Matteucci-Pasquino riporta come essa abbia tra i suoi capisaldi
“oltre alla preminenza dell’efficienza e della competenza, la concezione della politica come regno dell’incompetenza, della corruzione e del particolarismo, il tema del disinteresse delle masse nei confronti della res publica con la conseguente professionalizzazione del decision-making, la tesi del declino delle ideologie politiche e la sostituzione di una sorta di koiné tecnologica”.
A ben vedere questa definizione si attaglia molto di più al concetto a cui Matteo Salvini o Giorgia Meloni si riferiscono quando parlano di “dittatura sanitaria dei virologi”. L’idea del governo immacolato dei competenti, o presuntamente tali, che snobbano la politica regno di interessi di parte e gruppi di malaffare è però lungi dall’essere così impopolare. La tecnocrazia evoca infatti inquietudini solo nella misura in cui evoca, anche qui in maniera errata, il potere impersonale della tecnologia. Se parliamo di governo dei competenti il discorso cambia radicalmente, e sia la critica sia l’elogio della tecnocrazia medesima giocano con conscio pressapochismo su questa ambiguità.
Evitando però di intraprendere un discorso che ci porterebbe troppo lontano, prendiamo per vera l’affermazione dei politici populisti secondo la quale il nostro paese, più in generale l’intero Occidente, si sarebbe consegnato mani e piedi ad una casta di scienziati in camice bianco che avrebbero esautorato la politica. Quanto può stare in piedi questa tesi, e in generale quanto possiamo definire un regime politico come “tecnocrazia”? Può la competenza occuparsi della politica senza trasformarsi a sua volta in politica? Risulta qui chiaro che queste domande proiettano davanti a noi la grande fata morgana dell’epoca della fine della storia: un governo de-ideologizzato mosso esclusivamente dai parametri dell’efficienza, che metta finalmente da parte le passioni ideologiche che hanno insanguinato il Novecento.
In verità, l’idea di un governo degli scienziati non è né nuova né correlata strettamente all’idea ed all’emersione della modernità in senso stretto. Anche se non possiamo ancora parlare di “scienziati”, germi dell’ideale moderno di tecnocrazia si trovano già nella sofocrazia platonica, ma è l’età moderna (da non confondersi con la modernità in senso stretto) a teorizzare per prima l’ideale tecnocratico. Già nel 1624 Francesco Bacone, nella sua New Atlantis teorizza un governo di scienziati che, riunendosi nella “Casa di Salomone” per osservare, studiare e sperimentare la realtà, pur ognuno nel proprio ambito, funga anche da consesso di legiferatori. Il matematico illuminista Nicolas de Condorcet arriverà ad utopie simili allorché nel suo “Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain” del 1794 parlò della necessità, più volte ribadita durante la sua precedente carriera di accademico reale di Francia e poi di deputato alla Convenzione Nazionale, di porre la politica sotto la tutela della “neutralità” della scienza. Auguste Comte, il padre del moderno positivismo, si collocò nella stessa scia quando nel suo opuscolo “Plan des travaux scientifiques nécessaire pour réorganiser la société” (1822) affermava chiaro e tondo che:
“Nel sistema che si deve costituire, il potere spirituale sarà nelle mani degli uomini di scienza e il potere temporale apparterrà ai capi delle opere industriali.”
Tuttavia, proprio la pretesa neutralità della scienza si prestava in maniera eccelsa alla strumentalizzazioni di essa e delle sue figure di spicco, gli scienziati. In particolare, l’idea di un paravento neutrale ed al contempo inappellabile è sempre stata troppo golosa perchè i regimi non tentassero di appropriarsene. Già Cartesio si era accorto di come filosofi e metafisici non giungessero mai a conclusioni certe, in quanto i loro discorsi rimanevano afferenti a piani ultramondani inverificabili: solo la matematica dava risposte certe, e soprattutto inappellabili, e anche se la prima regola della morale provvisoria cartesiana venne escogitata a bella posta per evitare accuse di eversione, l’idea fece scuola. Se le norme di un governo volevano mettersi al riparo dalla critica di infondatezza e, più tardi, dal nichilismo, occorreva una certezza scientificamente dimostrabile sulla quale basare la corrispettiva teologia politica. Più che le rivoluzioni liberali, fu questo fondamentale problema filosofico a scardinare gli antichi regimi i cui presupposti riposavano nell’inverificabilità del mondo metafisico ultraterreno. La tre grandi teorie politiche della modernità di liberalismo, socialismo e fascismo dimostrarono di aver ben metabolizzato la lezione positivista, trincerandosi rispettivamente dietro ambiti scientifici quali economicismo, materialismo storico e biologismo. L’idea era quindi che i presupposti dell’ideologia di riferimento riposassero, a differenza dei vecchi paradigmi dinastici e teocratici, su fondamenta indubitabili delle quali le società di riferimento fossero solo il coronamento finale. Economisti, ingegneri e biologi si prestarono volentieri a fungere da detentori simbolici dei timbri dell’imprimatur, ma ad essi non fu mai concesso di andare oltre questo stadio. Il liberalismo non si tradusse nel governo degli economisti ma piuttosto in quello degli uomini d’affari che se ne servivano, esattamente come il socialismo, laddove prese il potere fu il governo dei burocrati più che quello di scienziati e ingegneri. I fascismi non fecero eccezioni, e al potere andarono politici e militari più che biologi e storici.
Che il ruolo degli scienziati fosse solo posticcio lo si era già compreso durante la Rivoluzione Francese. Fu proprio durante il Terrore, vera e propria prova generale di quelle che poi sarebbero state le dittature novecentesche, che la natura squisitamente politica, e dunque assolutamente anti-tecnocratica, del governo giacobino emerse in tutta la sua violenza. Le idee dei Lumi vennero represse con solerzia allorché ci si trovò nelle condizioni e nella necessità di farlo. Fu proprio Condorcet a pagare. Proprio per la sua natura di scienziato ed aspirante tecnocrate, il matematico entrò in rotta di collisione con Robespierre, da lui più volte accusato di pretesco deismo, atteggiamento a suo dire antiscientifico ed antilluministico. Condorcet pagò col carcere, all’interno delle mura del quale morì in circostanze poco chiare nel marzo del 1794. Nemmeno due mesi dopo, la stessa sorte sarebbe toccata al grande chimico Antoine Lavoisier, accusato di complicità coi realisti, e giustiziato dai rivoluzionari. Tra gli scienziati, e ve ne erano tanti, che sedevano nel Comitato di Salute Pubblica e nella Convenzione, nessuno mosse un dito per salvare gli sfortunati colleghi. Il potere politico aveva chiarito una volta per tutte quale fosse il posto riservato agli scienziati all’interno dello schema totalitario. L’idea di un governo degli scienziati è utile, in buona sostanza, solo fino a quando rimane sul piano della finzione; dietro questo paravento continua a essere vera la proposizione di Hobbes secondo la quale “auctoritas, non veritas facit legem”.
Il contesto di democratura odierno non fa eccezione: né i virologi né il Comitato Tecnico-Scientifico detengono la facoltà di imporre alcunché all’autorità politica, la quale del resto silura volentieri quegli scienziati che non si attengono alla narrazione, tutta politica, orchestrata dai corifei del governo. Tuttavia, proprio il governo ha gioco facile nel presentare come “scientifici” i provvedimenti adottati: solo questo li rende inattaccabili, solo così si riescono a far approvare misure di riduzione della libertà personale impensabili sotto un governo genuinamente politico. Del resto, si tratta di un meccanismo consolidato, e ognuno di noi si è sempre fatto indiscutibilmente docile quando dietro ad una prescrizione si trova un’autorità legata in qualche misura alla scienza: atei e mangiapreti eseguono diligentemente disposizioni di psicologi e terapeuti che, se fossero prescritte da un sacerdote, genererebbero reazioni inconsulte. Libertari e paladini dei diritti umani accettano robuste limitazioni alla libertà personale e radicali modifiche del proprio stile di vita quando esse sono suggerite da medici o nutrizionisti, ma giammai lo farebbero dietro ordine di un politico. Non a caso è diventato proverbiale il modo di dire “ma te l’ha ordinato il medico?” quando intendiamo informarci sull’obbligatorietà o meno di un’azione da compiere. I medesimi che si indignano per la chiusura delle frontiere per problemi di terrorismo sono gli stessi che applaudono alla chiusura delle frontiere quando in ballo c’è la salute. Perché? Questo avviene perché nel primo caso la decisione viene percepita come politica, ossia ideologica, dunque metafisica e dunque, in ultima linea, arbitraria; nel secondo caso invece viene interpretata come prescrizione necessaria basantesi su fondamenti indiscutibili. Qui emerge la poca accortezza nell’accusare il governo di essere una dittatura sanitaria con l’accezione di governo dei virologi. Presentandolo come governo degli scienziati, le opposizioni compiono il grossolano errore di consolidare, anziché picconare, il potere che intendono rovesciare. Agghindando di paramenti scientifici (in un atteggiamento che odora del millenario scetticismo del popolo minuto verso coloro che sanno) un governo che di scientifico non ha nulla, le opposizioni ne santificano il suo potere, ne legittimano la sovranità. Si assiste dunque allo strano spettacolo di un sistema di potere che sopravvive solo in quanto si ammanta di un’aura di scientificità, con le opposizioni che anziché confutare e smascherare l’inganno decidono di confermarlo.
Tale atteggiamento, oltre che politicamente scriteriato, si qualifica ancora una volta come ignorante a proposito dello stesso ambito scientifico. La tecnocrazia scientifica è una contraddizione in termini se, guardando alla storia della scienza, riconosciamo come da oltre due secoli le scienze sono vittime in una progressiva ed inarrestabile parcellizzazione. Lo scienziato, infatti, lungi da essere una sorta di sapiente antico che cogita sull’origine dell’universo è invece un tecnico iper-specializzato, i cui approfonditissimi studi nel proprio ambito di riferimento lasciano poco, se non nessuno, spazio all’approfondimento non solo della politica ma anche di altri ambiti della scienza non direttamente confinanti col proprio. Nell’ideale tecnocratico gli scienziati dovrebbero dunque rappresentare e praticare una sorta di “scienza delle scienze”, una scienza in grado di racchiuderle tutte, comprese quelle non direttamente afferenti all’ambito tecnologico ed alle scienze della vita. Bacone aveva escogitato, come scappatoia a questo problema, un’utopia retta da un governo collegiale (la Casa di Salomone), nella quale gli scienziati, pur specializzati, governavano discutendo insieme come se fossero un odierno gruppo di ricercatori, ma l’avanzamento e la profondità quasi infinita delle conoscenze odierne rispetto a quelle dell’inizio del Seicento scoraggiano un’impostazione di tal fatta. Inoltre, l’impossibilità di arrivare ad una verità prescrittiva ultima, nonché la caduta della fisica newtoniana a favore del modello della relatività di Einstein ha spogliato la Scienza prima della certezza, e poi della speranza, di arrivare ad una Weltanschauung coerente e positiva messa al sicuro dalle intemperie del nichilismo.
La scienza, a sua volta diventata, nella sua unitarietà, un miraggio, dovrebbe quindi aspirare ad un ruolo onnicomprensivo di tutto ciò che è utile sapere per governare in modo coerente gli uomini. Ma la scienza destinata al governo non è forse già la politica? Il cerchio si chiude quando si dimostra che dietro alla definizione strumentale di scienza non si cela in realtà alcuna ragione dello strumento stesso. Così come i gradi del termometro o di un igrometro costituiscono semplicemente un valore arbitrario attribuito dall’uomo ad una condizione data, così la Scienza, vera e propria idea-forma arbitraria, non possiede altro valore se non quello strumentale che le si attribuisce arbitrariamente in rapporto alle esigenze che si pretende possa o debba risolvere. Lo strumento, tuttavia, non può ricoprire alcuna funzione attiva, essa deve esservi insufflata da un attore che le indichi quantomeno una direzione, esattamente come ai gradi Celsius del termometro è impartito che l’acqua congela a zero gradi e bolle a cento. L’attribuzione di un fine a uno strumento è, e rimarrà sempre, una decisione essenzialmente politica. La “strumentalità per la strumentalità” si qualifica come controsenso evidente e sconfina nell’insensatezza poiché una politica che non si occupi dell’uomo è una non-politica, una contraddizione in termini, in ogni caso un presupposto insostenibile qualora venisse privato della sua anima, che si qualifica essenzialmente come volontà (di potenza, di giustizia, di felicità e così via). In tal senso non stupisce come la celebre morale provvisoria cartesiana sia rimasta tale senza mai concretizzarsi in morale definitivia. Nell’agone politico di oggi rimane quindi essenziale l’abilità del politico di riconoscere i sottili collegamenti che intercorrono tra le scienze e la sfera politica. Dentro allo strumento non vi è nulla, ma dietro di esso vi è il suo utilizzatore con la propria volontà. Comprendere la geografia reticolare di questi flussi di volontà consente di interpretare il modello finale, l’Endphänomen verso il quale la volontà politica ha indirizzato il proprio cammino.
Marco Malaguti
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.