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La regina è nuda. La sessualità anche?

La regina è nuda. La sessualità anche?


“Chi desidera ma non agisce, alleva pestilenza”
– William Blake, Proverbi infernali


Il grande polverone mediatico, ormai consueto per casi di questo genere, sollevato dalla vicenda dei commenti scurrili all’ormai controversa fotografia della campionessa di nuoto sincronizzato Linda Cerruti, ha aperto ancora una volta il vaso di Pandora su di un tema politico fondamentale, forse l’unico realmente tale all’interno del dibattito politico odierno, nel panorama della società contemporanea: quello del corpo e del valore della sua immagine in rapporto alla sessualità. Il profluvio di commenti a sfondo sessuale dilagato sui social ha profondamente disgustato la sportiva, la quale è insorta contro l’orda, parola da lei medesima utilizzata, che avrebbe sessualizzato il suo corpo riducendolo a puro oggetto sessuale e spogliandolo della sua valenza agonistica. La fotografia, che mostra varie medaglie appese alle gambe dell’atleta, ha il preciso scopo di mettere in risalto proprio le medaglie, e dunque il valore sportivo di quel corpo al quale sono così intimamente legate. L’immagine, in poche parole, sancirebbe quella che è la realtà istantanea che l’atleta ha deciso di conferire a sé stessa: il suo corpo è una macchina da competizione sportiva, uno straordinario e performante strumento di vittorie.

L’accusa fatta all’orda telematica è quella di sessualizzazione, quella cioè di aver conferito al corpo della sportiva una valenza erotica che, questa la tesi che si legge tra le righe nelle parole della diretta interessata, esso non possiederebbe di per sé. L’atto presunto di sessualizzazione del corpo viene quindi visto come una diretta intromissione del prossimo, in questo caso uomini eterosessuali, all’interno della privata sfera della donna. Il proposito femminista per cui “il corpo è mio e me lo gestisco io” è quindi qui portato all’estremo: la proprietaria del corpo rivendica non soltanto la padronanza e la sovranità sul suo corpo, ma anche sulla percezione che gli altri avrebbero di esso; qui l’ego travalica i confini della corporalità personale per invadere quella altrui. Si tratta della logica, tipica della società commerciale a trazione liberal-capitalistica, del diritto d’autore. Configurandosi il corpo come proprietà privata e come brand di sé stesso, il suo uso da parte degli altri, quand’anche meramente limitato alla sfera della fantasia e del pensiero, diventa abusivo e intollerabile in quanto il corpo è talmente interiorizzato in qualità di merce da avocare a sé le proprietà e le disposizioni d’uso della merce stessa.

In questa prospettiva, del resto radicalmente contemporanea, il solipsismo delle coscienze si aggroviglia in maniera inestricabile alle logiche della società del mercato. La sfera della sovranità, che si sposta da quella comunitaria a quella individuale, presuppone la completa autarchia dell’ente che se ne serve, in maniera assolutamente indifferente rispetto alla reale possibilità di realizzazione di questa utopia. Checché se ne dica, infatti, fino a che saremo dotati di organi di senso, gli altri uomini (e le altre donne) avranno sempre a disposizione l’immagine del nostro corpo, che potrà essere sessualizzata, mercificata, santificata, nullificata, scomposta, ricomposta ecc.

Che i corpi, sia umani sia no, non esistano di per sé ma soltanto in relazione ad altri era del resto assioma noto a Spinoza, che sulle proprietà dei corpi ha dedicato dense pagine di riflessioni tanto nell’Etica quanto nelle altre sue opere. “Cosa può un corpo?” si domandava Deleuze inaugurando una serie di lezioni su Spinoza da lui stesso tenute all’Università di Vincennes tra il novembre del 1980 e il marzo del 1981. Il ciclo, che prendeva le mosse, in particolar modo ma non soltanto, dal lungo scolio alla seconda proposizione contenuta all’interno della terza parte dell’Etica[1], indagava precisamente una delle più celebri problematiche della filosofia moderna: il rapporto tra corpi e tra corpo e mente. La divagazione da un caso di spicciola cronaca mondana alla filosofia di Spinoza, come avremo modo di comprendere, si configura solo apparentemente come un salto di palo in frasca, e sarà facile rendersi conto di come la problematica in questione investa, talvolta in maniera assai violenta, tutta la vita della società occidentale contemporanea.



Contrariamente alla stragrande maggioranza dei filosofi, compresi quelli contemporanei, Spinoza nega recisamente che il corpo agisca sotto i dettami della mente. Nella filosofia spinoziana, l’immagine della macchina corporale al servizio della mente, così cara a Cartesio, viene totalmente demolita. Se Cartesio aveva conferito tutto il potere alla mente, dotandola quasi di una capacità poietica sulla realtà esterna medesima gettando inconsapevolmente le basi della postmodernità, Spinoza le revoca questo privilegio. Troppe volte, infatti, il corpo dimostra, coi fatti, la sua indipendenza dalla mente. L’esempio del sonnambulo e dell’ubriaco, contenuti nell’Etica, fanno da puntello alla tesi spinoziana, ribadita anche altrove, dell’assoluta impossibilità di un libero arbitrio. Per Spinoza, la potenza del corpo è ancora avvolta da una nebbia enigmatica, la quale nasconderebbe al filosofo come allo scienziato tutto ciò che in realtà esso già fa, deviandone la paternità verso la mente. Considerare il corpo come entità materiale sottomessa alla mente è, in Spinoza, un’errata interpretazione della relazione tra causa ed effetto. Si attribuisce alla mente ciò che in realtà non può compiere, per il semplice fatto che la griglia interpretativa del reale di cui l’uomo si serve tende ad avocare a sé stesso ed alla sua mente tutti gli eventi dei quali non conosce l’origine precisa. La mutevolezza della mente e dei suoi pensieri di fronte ad oggetti, cioè a corpi, che la stimolano, testimonia una volta di più come siano questi ultimi ad influenzarla e non viceversa. L’assoluto potere che la filosofia attribuisce alla mente sarebbe dunque, per Spinoza, un colossale errore di sottovalutazione di quelle che invece sono le reali capacità e possibilità del corpo.

Questa confusione tra i piani fa sì che per Spinoza l’uomo attribuisca ad una libera volontà quella che in realtà è un’azione dettata dalla concatenazione che viaggia su catene di corpi interconnessi tra di loro. È così che “il neonato crede di desiderare liberamente il latte, il bambino in collera di voler liberamente la vendetta e il pauroso la fuga[2], esattamente come l’ubriaco crede di dire liberamente cose di cui finirà per pentirsi una volta uscito dai fumi dell’alcool. Il grande equivoco riposa quindi su di una conoscenza parziale della realtà, quella cioè limitata alla consapevolezza delle azioni in corso, senza che però la conoscenza e la medesima consapevolezza si estenda alle cause. Le decisioni che la mente prende di volta in volta sono dunque, secondo la tesi spinoziana, totalmente asservite alla logica delle disposizioni dei corpi: sono i desideri che sorgono dall’interfacciarsi dei corpi gli uni con gli altri a domandare imperativamente soddisfazione alla mente. Ad impedire la familiarizzazione con questa tutt’altro che rassicurante prospettiva sarebbe non già una limitata capacità della mente di decifrare la realtà, quanto la presunzione, la hybris, totalmente abusiva, che pretende di incasellare i corpi e le realtà medesime nelle teleologie nelle quali l’uomo vive immerso. I corpi, compreso il proprio, verrebbero quindi ricoperti, in maniera totalmente abusiva, di un significato morale totalmente alieno alla loro essenza, con la quale l’uomo finirebbe inevitabilmente per confonderlo. Sono queste proprio queste morali teleologiche a costituire quegli organi fittizi contro ai quali Deleuze e Guattari si scaglieranno, rivendicando un corpo acefalo, ovvero libero dalle rivendicazioni della mente, e senza organi.

Cominciamo, forse, a intravedere qualcosa del nocciolo della nostra riflessione. La tesi contemporanea del corpo come tabula rasa, la cui essenza può essere di volta in volta mutata e ridefinita a seconda dei desiderata del suo proprietario, scricchiola rumorosamente di fronte all’obiezione spinoziana alla legittimità della sovranità della mente. Non solo, l’onda di marea egoica che esonda nei corpi e nelle menti altrui, vede qui un’inversione e un riflusso; sono cioè gli altri corpi, e l’inestricabile rete di correlazioni tra essi, ad influenzare così potentemente il nostro sia sul piano del pensiero quanto su quello dell’estensione. Il fatto che il nostro corpo possieda, tra le altre cose, anche un’indiscutibile carica erotica, è quindi indipendente dal giudizio (cioè dalla mente e dalla volontà) altrui, in quanto la sfera erotica rimarrebbe confinata esclusivamente nella sfera indipendente dei corpi, questi sì, invece, ben capaci di porre al loro servizio le menti. L’accusa di sessualizzazione di un corpo presuntamente neutro reclamerebbe quindi alla mente una signoria che non le compete né le appartiene, oltre a fare violenza al proprio corpo medesimo, spogliandolo di quello che è un suo elemento costitutivo, ovvero la capacità di rapportarsi agli altri corpi in maniera totalmente indipendente dalle teleologie culturali umane.



Ci avviciniamo quindi, alla tesi psicanalitica che vede il corpo obbedire, in linea di massima, all’imperativo di soddisfare il cosiddetto principio di piacere (Lustprinzip). La tesi spinoziana della proprietà dei corpi di influenzare il desiderio della mente si incastra infatti perfettamente con la scoperta dell’inconscio rivendicata da Freud, allorché l’Es, invariabilmente connesso alla corporeità, cercherebbe in ogni modo di signoreggiare tanto sull’Io quanto sul Super-io. La rivendicazione del proprio corpo come tabula rasa, libero cioè anche della sua capacità di attrazione erotica (instaurabile o revocabile a comando) si configurerebbe quindi, in questa prospettiva, nell’atto di assoluto egoismo reclamante nientemeno che l’annientamento dell’Es altrui, oltre che in un’illogica quanto impossibile dichiarazione d’indipendenza di un corpo rispetto a tutti gli altri. Ma la realtà non può essere nascosta a lungo, e per quanto possiamo sforzarci di far violenza a noi stessi facendo finta di niente, ci sarebbe sempre un fanciullino, interiore o esteriore, pronto a dire che il re anzi, la regina, “è nuda!


Se l’accusa della sportiva di cui sopra fosse rimasta confinata all’ambito delle cosiddette buone maniere, cioè all’inopportunità di esprimersi in un certo modo pubblicamente, avremmo assistito al classico intervento del principio di realtà (Realitätsprinzip) volto a mitigare e ad “organizzare” i moti dell’Es ai fini di una maggiore sicurezza sociale. Un’accusa limitata all’atto dell’espressione scurrile avrebbe infatti mantenuto i confini della disputa all’interno dell’ambito delle azioni, ma il j’accuse contro la sessualizzazione sposta la contesa nell’ambito totalmente illegittimo delle essenze. Che i corpi possiedano per essenza una valenza erotica e tramite essa possano influenzare la mente è forse una delle più grandi conquiste scientifiche di Freud, che nessun antropologo è ancora riuscito a smontare e che Spinoza aveva, probabilmente, anticipato filosoficamente. La stessa nascita del pudore, lungi dall’essere una teleologia abusiva figlia del risentimento o del puro sadismo gratuito riposa, per Freud, su precise necessità evolutive della specie umana, senza la soddisfazione delle quali la civiltà non avrebbe mai visto la luce. La presenza di un disagio di civiltà è, in Freud, il prezzo che l’umanità deve inderogabilmente pagare per mantenere la barra dritta lungo il sentiero della civilizzazione, tenendo però ben presente che un totale asservimento dell’inconscio alle teleologie dell’io, del principio di piacere al principio di realtà o, per dirla in termini spinoziani, del corpo alla mente, rimarrà sempre un’irraggiungibile chimera[3].


Il velamento del corpo, la più o meno rigida censura della sua valenza sessuale rappresenterebbe quindi non già l’abolizione della sua carica erotica, ma il suo riconoscimento. Al contrario, proprio l’ostentata nudità, specie se abbinata alla pretesa di assenza di reazioni di attrazione, rappresenterebbe la più radicale negazione di ogni suo attributo sessuale (non a caso l’accusa è quella di sessualizzazione) e sarebbe quindi vera la tesi di Barthes, secondo la quale l’erotismo altro non sarebbe che un “fenomeno del velo[4]. Divagheremmo troppo se ci attardassimo a riflettere sulla domanda se tale negazione sia o meno una riemersione genealogica sotto mentite spoglie di qualcosa di simile alla vecchia morale religiosa o piuttosto una reazione postuma ad essa, basti soltanto sottolineare come l’avversione all’idea di sessualità sia qui correlata a doppio filo con quella di velamento. La aggressiva ostilità della contemporaneità verso veli e pudore non sarebbe quindi una difesa della libera espressione erotica del corpo, quanto piuttosto una feroce dichiarazione di guerra contro di essa, motivata, molto probabilmente, proprio dall’inquietante vaso di Pandora scoperchiato da Spinoza: l’assoluta sudditanza della nostra mente alle logiche della natura e dei corpi.



La potenza assoluta e poietica della mente, l’utopia prometeica e faustiana dell’uomo figlio della rivoluzione scientifica, naufragherebbero rovinosamente sugli scogli dell’Es, mandando in frantumi il nuovo falansterio di una società ragionata che riposasse su canoni indipendenti dai nudi rapporti di forza immanenti alla natura. La sfida alle stelle dell’uomo si scaglia inderogabilmente, e con violenza mai vista, proprio sulla forza più potente che ne nega in maniera così radicale l’autonomia: la sessualità. L’assoluta libertà rivendicata dall’uomo contemporaneo non può tollerare l’esistenza della sessualità. La stessa abusata espressione libertà sessuale è quanto di più ossimorico l’immaginazione dei filosofi, dei sociologi e dei politici sia mai riuscita a coniare. In tale prospettiva spinoziana e psicanalitica la sessualità sarebbe quindi l’esperienza, da parte della mente, delle indipendenti relazioni tra corpi sul piano dell’estensione e, solo di conseguenza, del pensiero. Nel radicale immanentismo di Spinoza questo significa, al contempo, fare diretta esperienza di quel Dio che è “tutta la natura[5]. L’esperienza del desiderio e delle sue leggi dei corpi sarebbe quindi nientemeno che l’apparizione e la compartecipazione alla manifestazione teofanica dell’ineffabile Dio di Spinoza, quell’Ergriffenheit che molto significativamente indica tanto l’emozione ed il sentimento quanto l’atto -passivo- di essere rapiti e afferrati dalle “magnificenze dell’essere (Herrlichkeiten des Seins)”[6].

È questa passività, oggi, a spaventare l’uomo: i timori che sorgono di fronte alla potenza dei suoi artifici da laboratorio sono incommensurabilmente minori se rapportati al terrore che sorge di fronte alla potenza di Eros. Di fronte all’umanità raffreddata, che continua a temere più di ogni altra cosa sé stessa anziché la propria ragione angosciata, la mente riflette ancora una volta, come abbiamo appena fatto insieme, sul ruolo di Eros, e si domanda infine come sia possibile che i corpi indichino così furiosamente agli intelletti una teleologia culturale che pure finisce per danneggiare e reprimere prima di tutto loro stessi. L’angoscia, come espressione più pura di un difetto di potenza, condiziona qui in maniera logica i corpi medesimi secondo una dialettica di potenza che non possiamo, per ora, affrontare in questa sede. Riflessioni come quella appena condotta insieme, tuttavia, testimoniano come oltre all’orizzonte dell’angoscia, che è solo una manifestazione di secondo grado di Eros, ve ne sia un secondo. Tali riflessioni sono infatti a loro volta invariabilmente figlie del corpo e non già della mente: ancora una volta esso reclama una felicità di più alto grado e intensità e proprio il loro sorgere dall’Angoscia testimonia che invero sempre la felicità si configura come il sommo bene a cui tutto tende. Ascoltare, dunque, il richiamo di Eros corrisponde all’ascolto del richiamo della natura e di Dio, all’esperienza della teofania e con essa, della vita al suo massimo grado di intensità.

“Niente, infatti, considerato nella sua natura, si dirà perfetto o imperfetto, particolarmente poi che avremo saputo che tutto ciò che accade, accade secondo un ordine eterno e secondo determinate leggi naturali. Ma l’uomo, non potendo nella sua debolezza arrivare a capire quell’ordine, concepisce nel frattempo una qualche natura umana molto più forte della propria e contemporaneamente, non vedendo ostacoli al conseguimento di tale natura, è stimolato a ricercare i mezzi che lo conducano a quella tale perfezione, e tutto ciò che può essere un mezzo per pervenirvi si chiama vero bene. Il sommo bene poi è considerato il pervenirvi, così che l’uomo con altri individui, se è possibile, goda di tale natura. Mostreremo a suo luogo qual è questa natura, cioè che essa è la conoscenza dell’unione che ha la mente con tutta la natura. Questo è dunque il fine al quale tendo: acquistare una tale natura e cercare che molti la acquistino insieme con me; cioè fa parte della mia felicità anche l’adoprarmi perché molti altri pensino come me ed il loro intelletto e i loro desideri s’accordino perfettamente col mio intelletto e coi miei desideri.”[7]


[1] B. SPINOZA, E III, prop. 2 sc. (Etica, edizione critica del testo latino e traduzione italiana a cura di Paolo Cristofolini), pp. 155-161, ETS, Pisa 2014

[2] Ivi, p. 155

[3] S. FREUD, A. EINSTEIN, Perché la guerra?, p. 77, Bollati Boringhieri, Torino 2021

[4] R. BARTHES, Il piacere del testo, p. 9, trad. it. di Lidia Lonzi, Einaudi, Torino 1975

[5] B. SPINOZA, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 13, p.14, SE, Milano 2009

[6] W.F. OTTO, Dionysos. Mythos und Kultus, postfazione di A. Stavru, Klostermann, Frankfurt am Main 2011, pp. 26/29; tr. it. Di A. Ferretti Calenda, Dioniso. Mito e culto, Il Melangolo, Genova 2006

[7] B. SPINOZA, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 12,13,14, p.14, SE, Milano 2009

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