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Jihād, genesi di un concetto

Jihād, genesi di un concetto

“Il Profeta delira!” Con queste parole, alcuni astanti, attorno al letto del morente Profeta Muḥammad, commentavano le ultime richieste del capo supremo dell’Islām e Sigillo dei Profeti, la sera del 8 Giugno del 632. Egli aveva infatti chiesto da scrivere, per poter mettere per iscritto le proprie ultime volontà, che contenevano un vero testamento politico e religioso per i musulmani; essendo però egli stato da sempre rinomatamente analfabeta, la richiesta non venne esaudita.

La frase “il Profeta delira!” può dare un’idea, anche se non completa e mai sufficientemente ricca di pathos, del panico che regnava tra i compagni di Muḥammad, i cosiddetti Saḥābi, al momento della dipartita dal mondo terreno di colui che aveva dato vita all’Islām. Questo panico andrà poi fin da subito ad avvelenare, comparendo e scomparendo come un fiume carsico, la politica e la teologia musulmana, generando dispute sulla dignità all’accesso della carica di Califfo, ovvero di successore di Muḥammad, e dubbi teologici che solamente il Profeta avrebbe potuto dirimere; dubbi che, naturalmente, non mancarono di essere usati, in un senso o nell’altro, a seconda delle convenienze politiche dei potenti durante la lunga storia dell’Islām. La comprovata diffusione di falsi ḥadīth (detti del Profeta), dopo la morte di Muḥammad, generarono talmente tanta confusione da rendere più volte necessaria la convocazione di apposite commissioni di teologi e giuristi che ne classificassero, in base ad una scala di affidabilità, l’autenticità o la fallacia. La stessa tardiva trascrizione del Corano, che avvenne solamente qualche anno dopo la morte di Muḥammad, che invece lo tramandava oralmente, non aiutò a creare un clima di distensione e certezza attorno a quelle che dovevano essere sia le norme religiose, sia soprattutto i canoni, lo stile ed il modo in cui le leggi coraniche e la Sunnah dovessero essere applicate e/o interpretate.

Il termine dell’interpretazione coranica è infatti il vero bandolo della matassa del problema dell’Islām con il jihadismo moderno. Ciò che sarebbe d’uopo dimostrare è appunto l’indipendenza del problema del jihadismo comunemente inteso da quello della modernità stricto sensu. Una certa interpretazione politicizzata della storia islamica, fa infatti coincidere l’esplosione della violenza terroristica di matrice islamica salafita, al contatto dell’Islām con la modernità illuministica occidentale. Tale clima culturale, religioso e politico, pare invece una riemersione di una tendenza ciclica all’interno del mondo islamico, che pare muoversi quasi come un respiro, alternante periodi quiescenza ad altri di esplosione centrifuga delle tensioni ristagnanti all’interno del mondo musulmano. Si può notare che, genericamente, la storia islamica alterna lunghi periodi di prosperità teologica ed apertura all’investigazione gnostica della ‘Irfān, ad altri di matrice austera e meramente essoterica della fede. Tale disposizione, tipica di molte istituzioni umane, ricalca lo schema secondo il quale ogni istituzione, quando minacciata nelle sue fondamenta, sente il bisogno naturale di ritornare a occuparsi dei pilastri portanti della struttura religiosa e sociale, trascurando, fino allo scampato pericolo, le aperture all’esterno. L’Islām è dunque quasi una vittima predestinata della sua stessa desperatio fiducialis, per usare una felice espressione di Henry Corbin, con la quale attende con fiducia e disperazione l’ultimo giorno.

Quella disperazione, non è altro che la palese inadeguatezza che il musulmano pio sente su di sé, confrontandosi con le prime tre generazioni di credenti, vero simbolo del “paradiso perduto” della società islamica. Le prime tre generazioni di credenti, ovvero i Saḥābi (i Compagni, la prima generazione), Tābiʿūn (i Seguaci, seconda generazione), ed i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn (Coloro che vengono dopo i seguaci, la terza generazione), compongono il gruppo di primi musulmani che la tradizione chiama “i pii antenati” (salaf al-ṣaliḥīn). E’ opinione comune di molti teologi, mistici, dotti e giuristi, che le prime tre generazioni di musulmani, abbiano costituito la vera e propria epoca d’oro dell’Islām, quella cioè nella quale le divisioni tra confessioni e partiti non avevano ancora avvelenato l’unità della grande religione monoteistica. La ricerca, nelle successive e travagliate epoche della storia musulmana, della perfezione perduta delle prime epoche, quando ancora la parola di Muhammad era un vivo ricordo nelle orecchie delle persone viventi, sarà una costante della religione islamica fino ai giorni nostri. Così come nella religione cristiana, riemergono carsicamente, seppur sotto altre forme, meno violente ma non meno pericolose, tentativi di ritorno ad un mitico, e mai troppo chiaro “cristianesimo delle origini”, l’Islām reagisce, come antidoto ai suoi insanabili scismi ed ai suoi periodici allentamenti di fedeltà alla Shari’a, con continui richiami all’Islām delle origini. Come nei periodi critici della Chiesa e degli stati cristiani d’Europa, tali aspirazioni musulmane si rafforzano nei periodi nei quali la fede è debole, o nei quali gli stati musulmani si trovano in difficoltà politica o militare.

Il primo ispiratore, di un ritorno all’ortodossia ed all’austerità delle origini, fu senza dubbio il teologo Ahmad ibn Hanbal, fondatore poi della scuola giuridica dell’hanbalismo, vero e proprio utero del moderno estremismo. Ibn Hanbal nacque a Baghdad nel 780 d.C. nemmeno due secoli dopo la morte di Muhammad. Fu il primo, tra gli esperti di fede, ad occuparsi estensivamente ed in maniera approfondita del secolare problema che contrappone, nell’Islām, la ragione alla fede.

Per Ibn Hanbal, la ragione non può in nessun modo essere usata nell’interpretazione del testo coranico e nell’applicazione delle sue disposizioni. Il testo coranico, infatti, increata opera divina, proprio in quanto tale non può essere in alcun modo compreso da alcuna ragione umana. Ne consegue che ogni tentativo di interpretazione allegorica (taw’il) e di interpretazione personale (ra’y), non può che essere foriera di confusione e dunque di errori blasfemi. Il messaggio di Ibn Hanbal sostanzialmente lo pone nel senso di una vasta tradizione letteralistica dell’interpretazione coranica, che si contrappone, ancora oggi, ad altre interpretazione più gnostiche, presenti anche nello sciismo, fino a quelle sufi che parlano addirittura di diversi livelli di lettura del testo coranico.
La legge essoterica ha, per Ibn Hanbal, tutto ciò che di necessario vi è alla salvezza dell’uomo. Tutto il resto è un pericoloso rischio, una strada che probabilmente, quasi certamente, conduce all’inimicizia con Allah. Per motivi simili a quelli del conflitto tra Papato ed Impero, nella storia dell’Europa medievale, i successori di Ibn Hanbal quasi mai ebbero vita facile sotto i vari califfi. Gelosi della loro autonomia e del loro lussuoso stile di vita, rispetto ad una stretta ed ascetica ortodossia islamica, molti califfi avversarono la scuola hanbalita, esiliandone gli esponenti ed incarcerandone altri. Fu questa la sorte, per vari anni della sua vita, del teologo hanbalita siriano Ibn Taymiyya Taqī al-Dīn Abū al-ʿAbbās Aḥmad.

Ibn Taymiyya visse nel periodo più buio della storia islamica, quello della dominazione mongola del Medio Oriente, che vide il suo inizio nella presa e nel sacco di Baghdad da parte dei mongoli di Hulagu Khan, che ne sterminò la popolazione, fece bruciare la preziosissima biblioteca Bayt al-Hikma (con perdite incalcolabili per la cultura mondiale) e fece uccidere il califfo abbaside al-Musta’sim. La dominazione mongola sull’Iraq, che sconfinava in periodici raid in Siria e che costrinse la famiglia di Ibn Taymiyya ad emigrare nella più sicura Damasco, ebbe un’influenza determinante nella formazione culturale del giovane teologo. I mongoli, etnia non araba proveniente dalle steppe di cultura turca dell’Asia Centrale, erano sì musulmani, ma si contraddistinguevano per un’applicazione quanto mai approssimativa della legge coranica, spesso e volentieri sostituita dalle antichissime consuetudini tribali mongole, di chiara origine pagana. Tale sincretismo si qualificò immediatamente intollerabile agli occhi dei musulmani, già prostrati dall’umiliazione della distruzione del califfato. Di chiamare a raccolta gli Arabi e tutti i buoni credenti, si occupò proprio Ibn Taymiyya, che rimarcò, con una forza senza precedenti, come non degno di rispetto quel musulmano che, limitandosi a professare la fede in pubblico, si rifiuti poi di applicare la legge coranica. Questi musulmani “tiepidi”, vivevano, secondo il teologo siriano, in uno stato di Jāhilyya, termine che nella religione musulmana e nella lingua araba indica lo stato di ignoranza precedente alla venuta del Profeta. Non c’era dunque differenza, per Ibn Taymiyya,  tra musulmani non praticanti e infedeli. Entrambi dovevano essere combattuti con il piccolo jihād, ovvero la guerra santa manu militari, che il teologo aggiungeva come sesto pilastro, ai cinque Arkān al-Islām, i canonici pilastri della fede islamica. Tale innovativo aspetto della teologia musulmana, è ancora attualissimo, perché è usato tutt’ora dai gruppi di ispirazione hanbalita per giustificare le campagne militari e terroristiche contro stati musulmani laici (Turchia, Siria, Egitto ed altri) o teocrazie non sunnite (Iran). Se Ibn Hanbal aveva inaugurato, o per meglio dire, codificato il letteralismo interpretativo del testo e delle leggi coraniche, Ibn Taymiyya farà il passo successivo, andando a codificare il rinnovamento anti-moderno dell’Islām in una pratica di una sorta di missionarismo armato. Come però già detto, l’oltranzismo letteralista del teologo, gli causò numerosi problemi con le autorità. Per quasi due anni fu incarcerato nel carcere del Cairo, dove si era rifugiato in fuga dai Mongoli, accusato di eresia letteralista. Ritornato in Siria , fu più volte incarcerato dal Sultano di Damasco, per aver condannato alcune tradizionali pratiche islamiche quali il pellegrinaggio alle tombe dei “santi”, da lui definita pratica pagana in quanto il culto spetterebbe soltanto ad Allah e non alle tombe. Continuò a scrivere dal carcere, fino a quando il sultano non gli fece requisire carta e calamai, e morì in carcere nel 1328.

Successore ideale di Ibn Taymiyya, fu il teologo hanbalita Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb al-Tamīmī al-Najdī (1703 – 1792). Originario dell’odierna Arabia Saudita, al-Wahhāb è universalmente considerato lo spartiacque tra l’oltranzismo islamico antico e quello contemporaneo. Il teologo saudita, aggiunse ai contenuti di Ibn Taymiyya, una fortissima polemica marcatamente diretta verso le confraternite Sufi, i musulmani sciiti, principalmente localizzati nel sud dell’Iraq, nella Persia e nel Caucaso e gli Ibaditi dell’Oman. Il millenarismo titanista, che vedeva la teologia di al-Wahhāb dipingere i luoghi santi di La Mecca e Medina assediati e ostaggi di potenze controllate da “falsi musulmani”, ebbe facile presa nelle poverissime zone aride tribali dell’Arabia beduina più conservatrice. L’ideologia di al-Wahhāb, che si contraddistinse anche per le forti caratterizzazioni anti-ottomane, fece presa sui capi beduini dell’Arabia interna, tra i quali la famiglia Al-Saud, che oggi governa sull’intera Arabia Saudita.  Grazie alla posizione di teologo ufficiale di Casa Saud, al-Wahhāb ebbe gioco facile ad espandere l’influenza delle sue tesi in lungo e in largo nella penisola arabica, accompagnando la progressiva espansione della casa reale. Nel 1801, i wahabiti sauditi conquistarono infatti, con un raid a sorpresa, le due città sante di La Mecca e Medina, cacciando la guarnigione turca dalle città. La reazione anti-jihadista del governo di Istanbul fu immediata e feroce. Il sultano Mahmud II inviò ben tre spedizioni armate in Arabia, affidate al chedivè d’Egitto Mehmet Alì ed al generale Ibrāhīm Pascià. Quest’ultimo, nel 1816, riuscì a sconfiggere definitivamente i wahabiti, guidati dal nipote di al-Wahhāb, che venne fucilato immediatamente. Il re ʿAbd Allāh bin Saʿūd venne invece tradotto a Costantinopoli, dove Mahmud II lo fece decapitare ed esporre nella pubblica piazza.

Nonostante il quasi completo annientamento delle armate wahabite, i sauditi wahabiti riuscirono a resistere nelle loro roccheforti nel deserto, dove l’esercito ottomano, già parzialmente “europeizzato” non riusciva a penetrare. Il nucleo wahabita riuscì a permanere nel deserto, dove continuò a covare odio verso l’autorità centrale turca della Sublime Porta. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e la discesa in campo degli Ottomani al fianco della Germania e della duplice monarchia Austro-Ungherese, le potenze dell’Intesa, in particolare l’Inghilterra, cominciarono ad accarezzare l’idea di una grande rivolta araba nella penisola arabica, che distogliesse importanti forze ottomane dal fronte, e andasse a causare un collasso dell’Impero direttamente nel cuore dei suoi territori asiatici. Cominciò così l’efficace guerriglia jihadista wahabita contro le infrastrutture ottomane, coordinata dall’ufficiale inglese Thomas Edward Lawrence, noto come Lawrence d’Arabia. La rivolta araba, inizialmente frammentata e confusionaria, cominciò ad agire, grazie al lavoro di coordinamento di Lawrence, in maniera sempre più organizzata e coordinata, fino a generare, nell’ottobre del 1918, il collasso dell’Esercito Ottomano nella battaglia di Megiddo, in Palestina.

Con la vittoria araba, e la messa fuorigioco dell’Impero Ottomano, i britannici accordarono dunque ai sauditi wahabiti il premio pattuito per il loro impegno in guerra: il placet inglese alla creazione di un grande stato arabo-wahabita nella penisola arabica sottoposto alla corona dei wahabiti ‘Saud. La concessione, che ai britannici sembrò di poco conto, essendo l’Arabia considerata poco più di uno scatolone di sabbia, si rivelò poi decisiva nei decenni a venire, quando vennero scoperti i colossali giacimenti di petrolio che il territorio arabo cela sotto le sue sabbie. Con la progressiva avanzata del boom industriale mondiale, la sempre maggiore domande petrolifera ha causato un’impennata delle entrate nelle casse della famiglia Saud, che gestisce, fedele alle sue origini, lo stato secondo una concezione rigidamente clanica. Il fiume di denaro in entrata, si è poi tradotto, nel tempo, in un cospicuo finanziamento delle moschee e dei centri culturali wahabiti nel mondo islamico e non solo, essendo il wahabismo hanbalita un vero e proprio strumento geopolitico nelle mani della casa reale di Ryadh. Parallelamente, quasi a braccetto, nel Maghreb degli anni trenta, totalmente egemonizzato dalle potenze europee (Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna), si faceva largo il movimento religioso e culturale del salafismo (termine derivato dai pii antenati salaf al-ṣaliḥīn).

Fondato dal siriano Muḥammad Rashīd Riḍā, ebbe però presa soprattutto in Egitto e Tunisia. Negli anni trenta del Novecento, infatti, giungevano per la prima volta nel Maghreb, ex tranquille province periferiche dell’Impero Ottomano, le innovazioni portate dai paesi colonialisti europei.
Alcool, musica europea, prostituzione e generica “modernità”, oltre naturalmente ai coloni cristiani, cominciarono a essere visti come minacce all’identità islamica ed all’ortodossia dagli ambienti più conservatori. Questi ultimi, critici sia verso le potenze coloniali sia verso le autorità collaborazioniste maghrebine, trovarono negli hanbaliti salafiti e wahabiti una sponda fertile nella quale rilanciare la tradizione. L’innovazione di Rashīd Riḍā, fu quella di far uscire l’oltranzismo conservatore hanbalita dall’austera chiusura delle madrasse, per proiettarlo nella modernità. Contro la modernità, ma attraverso di essa, è il motto dei Salafiti. Secondo i Salafiti, infatti, non è possibile tornare ai tempi dei Pii Antenati, senza però utilizzare tutti gli strumenti della modernità per ritorcerli contro di essa. Il nemico, dunque, non è più soltanto il musulmano non praticamente, diventa, nell’humus della società coloniale dell’epoca, l’Europeo, fatto corroborato dalla ripresa della retorica anti-crociata di Ibn Taymiyya. La destra conservatrice islamica egiziana si riunì attorno alla rivista al Manār, e nella Jamaʿat al-Iḫwān al-muslimīn, più nota come Fratellanza Musulmana, tutt’ora esistente e principale gruppo estremista nel mondo.

Con la sconfitta dell’Asse, l’arrivo, in Nordafrica e Vicino Oriente dei nazionalismi laico-socialisti, l’ industrializzazione forzata, l’emancipazione della donna, e soprattutto la nascita dello Stato di Israele in una Palestina da sempre cruciale per la geografia sacra islamica, gli ambienti salafiti, sempre in proficuo contatto con quelli wahabiti, ebbero un’ulteriore spinta in avanti, aumentando considerevolmente i proseliti nei paesi islamici e nelle comunità di immigrati sradicati ed in cerca di identità nei paesi europei. La sintesi tra i proventi del petrolio e la spinta di “ritorno alla tradizione” che anima una consistente parte del mondo islamico, ha trovato una fortissima convergenza degli interessi, simile, se vogliamo, a quella che riunì i grandi potentati industriali europei di inizio secolo, con le forze nazionaliste dei principali paesi occidentali. L’Europa, insomma, non è che l’ultimo, e solo uno dei tanti, bersagli dei movimenti di rinnovamento islamico. Comprendere questo passaggio è essenziale, poiché, al di là della mera curiosità storiografica e teologica, smonta un mito fondante del diritto-umanismo terzomondialista: ovvero la correlazione tra violenza settaria e colonialismo. Come dimostrato dalla storia islamica, pressoché ancora sconosciuta nelle scuole e nelle università europee, la violenza settaria, quello che i media definiscono in maniera approssimativa “jihadismo”, ha radici molto antiche nella storia musulmana e nasce ben prima dell’incontro/scontro tra Islām ed Europa. Smontato, di conseguenza, il mito di un mondo musulmano tollerante ed aperto, distrutto da un’invasione crociata di estremisti cristiani. Apertura e chiusura, come dimostrato, erano aspetti connaturati ad entrambe le parti, ed emersi in plurime epoche storiche a seconda dei contesti. Nel mondo di oggi, schiavo di retoriche che ci dividono tra l’ideologia benpensante e no-border, che vede nel mondo islamico una sorta di raffinata versione di impero di buoni selvaggi, ed un’ideologia finalistica dello scontro di civiltà di matrice anglosassone (Huntington), solo un più accurato approfondimento della storia, della teologia e della filosofia islamica possono darci una comprensione accurata dei fenomeni storici odierni e, perché no, chiavi di lettura interessanti ed utili alla disattivazione dei detonatori culturali piazzati dalla sinistra marxista culturale all’interno del nostro modo di interpretare e vedere il mondo (compreso quello islamico). Un insegnamento prezioso che possiamo ricordare, da patrioti, è che tutti i popoli possono farsi la guerra, ma solo i popoli che si conoscono possono fare la pace.

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