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In montagna per riscoprire i limiti

In montagna per riscoprire i limiti

La notizia è di oggi: la famiglia dell’alpinista di Latina Daniele Nardi ha detto no ad una spedizione di recupero volta a riportare in Patria il giovane scalatore assieme al suo compagno di scalata, il britannico Tom Ballard. I due amici riposeranno tra i ghiacci eterni del Nanga Parbat, in Pakistan, ad oltre 5900 metri di quota, tra le nevi eterne dello Sperone Mummery, punto di partenza della cosiddetta Via Impossibile, la più difficile via per la vetta della montagna himalayana che ancora nessuno è riuscito a percorrere. La famiglia dell’alpinista laziale ha dunque rifiutato l’offerta dello scalatore bergamasco Simone Moro e del basco Alex Txicon (già autore del ritrovamento, a distanza, delle due salme) di correre un ulteriore rischio in nome della “folle impresa” dei due sfortunati scalatori. La scalata, già tentata da Nardi altre cinque volte, aveva infatti suscitato molte polemiche, incluse le deliberate accuse di “tentato suicidio” per un alpinista che intendeva aprire il limite verso una nuova via alla vetta. Il mondo alpinistico e culturale si è diviso: c’è chi sostiene che il buon alpinista non si misuri in quanti pericoli rischia, ma in quali coefficienti tecnici riesce a superare, mentre c’è chi invece sostiene che l’alpinista altro compito non abbia se non quello della ricerca ad ogni costo di un limite da infrangere e di una nuova vetta da raggiungere. Entrambe le posizioni, ad avviso di chi scrive, contengono un nocciolo di verità, ma soffrono di due impostazioni parziali di vedere la realtà montana. La prima impostazione, che potremmo chiamare sportiva,pone l’esperienza alpinistica come un mero superamento di coefficienti tecnici e di innalzamento delle proprie prestazioni sportive. L’alpinismo, in questa concezione, diventa dunque uno sport come un altro, nel quale migliorare le proprie prestazioni medianti innalzamenti di quota, allenamenti specializzati, diete e registrazione di tempistiche. Secondo la concezione sportivo-ludica, la montagna non è altro che un gigantesco impianto sportivo a cielo aperto, un piano neutro nel quale esercitarsi ad una disciplina come tante altre, quali ad esempio le immersioni subacquee, il paracadutismo o la corsa campestre. L’assoluta mancanza di verticalità della concezione alpinistica sportiva, naturalmente, frusta il fianco ad una disciplina che vede nell’ascesa il suo estrinsecarsi, rivolgendo tutta l’energia dell’esperienza in modo riflessivo ed egoistico sul fisico del singolo che compie l’impresa. Non è più dunque la montagna a dover essere scalata, è l’uomo che deve aumentare le proprie prestazioni, non senza documentare tutto questo sui social. In questa impostazione qualunque scenario va bene, non conta più se una parete sia collocata sulle Alpi, sull’Himalaya o nei paesi andini, anzi, potrebbero esistere anche montagne artificiali, e nulla cambierebbe in tal senso (non a caso esistono le cosiddette “palestre di arrampicata” nei centri di ogni città occidentale). Le montagne, secondo molti sportivi di oggi, non sono altro che questo: gigantesche palestre a cielo aperto nelle quali si va per esercitare il proprio corpo, vero tempio dell’ego, anziché per conoscere la propria interiorità sottoponendosi a sforzi intensi ed “ascetici”. L’ascesa diventa dunque orientata esclusivamente al corpo, debitamente irregimentato in una gabbia di coefficienti e parametri, anziché alla contemplazione. L’origine dell’alpinismo infatti fu proprio quella della necessità di contemplare. Si andava sulle cime dei monti letteralmente “per vedere la vista da lassù”, ovvero per ovviare alla curiosità di chi voleva osservare il mondo da un punto di vista differente, piuttosto che misurare sé stesso in una lotta contro la stessa natura umana. L’impresa titanica al limite del suicidio, in nome di sé stessa, infatti, nasce con l’era moderna, ed era sanzionata con brutale solerzia dagli Dei Olimpici dell’epica europea. La cosiddetta ὕβϱις, fu la vera e proprio damnatio degli eroi omerici, ed in generale di tutto il mondo tradizionale pre-illuminisitico. Vero è che vi furono alcuni episodi di scalate già in epoca antica (è nota ad esempio l’ascensione dell’Etna compiuta dall’imperatore Adriano), ma in generale l’attività alpinistica venne sempre vista come un suicidi ai limiti dell’empietà. Già i Greci condannavano come empio chiunque avesse violato la casa degli Dei, quel Monte Olimpo le cui nevi ancora scintillano sulla Tessaglia dall’alto dei suoi quasi tremila metri. Analogamente proibite erano molte delle vette himalayane, e tutt’ora alcune rimangono precluse al turismo (il Bhutan ha varato leggi in tal senso), in rispetto agli Dei che vi dimorano. Nell’antichità europea, il mero transito negli alpeggi, per non parlare dell’inviolabile limes delle “nevi perenni”, era un vero e proprio viaggio tra i piani, da compiersi solo per improrogabili necessità e secondo dovute modalità di espiazione per lo sconfinamento commesso. Non c’era infatti passo alpino, utilizzato dall’uomo, i cui genii locali non fossero debitamente omaggiati dai viandanti che, nella buona stagione, avevano l’ardire di scollinarvi. Ex voto, incisioni di ringraziamento, depositi votivi, tempietti e cromlech (come quello molto suggestivo del Piccolo San Bernardo, tra Valle d’Aosta e Francia) non “risparmiano” quasi nessuna località. L’accesso ad una dimensione eterea, dove le rocce ed i ghiacci sono, appunto, perenni, connotava l’esperienza del transito delle montagne nell’invasione di campo di uno spazio gioviano, consacrato a numi superi, ai quali era giusto tributare i dovuti onori, per ringraziare della sicura ascesa, e per ingraziarsi una altrettanto sicura discesa. Non a caso, ancora oggi, il termine friulano Jôf (derivazione di Giove?) denomina le cime dei monti, esattamente come il ladino fassano Jouf indica i passi, sancendo la consacrazione al signore degli Dei di tutte le altezze montane. La tradizione proseguì in epoca cristiana, con l’edificazione di innumerevoli cappelle votive, l’innalzamento di croci e la collocazione di luoghi di meditazione (monasteri ed eremi) e di ricovero (ospizi e bivacchi) gestiti da ecclesiastici nelle località più alte ed impervie di tutti i monti d’Europa.

La seconda impostazione è invece quella che potremmo definire superomistica. Secondo questo modo di concepire l’ascesa, essa non sarebbe altro che la celebrazione vitalistica dell’uomo che cerca di protendersi sempre più verso le altitudini celesti, in un crescendo rossiniano di Wille zur Macht volto al mero superamento del limite, che vede nel limes non più una barriera di protezione, ma una costrizione limitante da rompere in vista di altri futuri obbiettivi. Non è un caso che il moderno alpinismo nasca proprio alla fine del Settecento, soli tre anni prima della vittoria dei Lumi sulla monarchia francese, con la scalata del Monte Bianco di una spedizione transalpina. La concezione superomista dell’alpinismo, viaggia a braccetto con il positivismo scientista ed il neo-umanesimo che vede l’umanità proiettata nell’aggiogamento della Natura, finalmente libera dai paraocchi dei preti, e più in generale delle vecchie e moribonde tradizioni dell’antichità e del medioevo. Concezione, questa, cara anche ai futuristi, che però trasporranno questa disposizione più all’ambito tecnico e bellico che non alle ascese. Celebre, in questo senso, il dialogo, sulla cui autenticità si nutrono dubbi, ma assolutamente compatibile con la realtà, presente nel film “Sette Anni in Tibet”, dove un baldo Brad Pitt, nel ruolo dello scalatore austriaco Heinrich Harrer, si sente redarguire nel mercato di Lhasa dalla giovane tibetana Pema Lahki per il fatto di voler primeggiare a tutti i costi, mentre nella società tibetana l’uomo non dovrebbe mai voler primeggiare per il puro gusto di farlo, né compiere atti sconsiderati di Hỳbris. Due mondi diversissimi, quello dell’Europa degli quaranta, calata nel pieno del positivismo totalitarista, e quello del Tibet arcaico, feudale ed ancorato alle avite tradizioni lamaiste e bön, vengono a contatto in maniera giocosa e curiosa l’una dell’altra, ma già sinistramente anticipando, senza saperlo, il ben più brutale arrivo delle Guardie Rosse di Mao.

Nardi, prima di incamminarsi nella sua ultima scalata, aveva rimarcato l’idea di voler fare qualcosa di nuovo, di tentare l’impresa, quell’impresa dove già molti avevano fallito, su una delle montagne più pericolose dell’Himalaya, già costata la vita ad innumerevoli alpinisti, tra i quali Günther Messner, fratello del più celebre Reinhold. Come tanti prima di lui, fu il desiderio superomista della novità a condannarlo. Come già molti hanno fatto notare, su giornali e spazi online, non è il caso di indignarsi, ed ancor meno lo è di dividersi in fazioni, tra chi sostiene che egli è un “martire dell’ardimento” di sapore futurista e dannunziano, e chi invece un temerario che se l’è cercata. Dovremmo, forse riflettere maggiormente su cosa significa, oggi, l’ascesa, e soprattutto, ancora una volta, il concetto di limes-limite. Se infatti ci troviamo in un’epoca di ridefinizione dei limiti, ogni ambito sarà presto ridiscusso, compreso quello delle ascese alpinistiche. Finite, o quasi, le vette ancora da scalare, pare esaurirsi anche la spinta superomistica nella corsa verso l’alto. Rimane, è vero, la corsa verso gli abissi marini, ancora inesplorati al 96%, ma difficilmente il bisogno di mezzi tecnici estremamente avanzati stimolerà le masse di affamati di performances fisiche ad intraprendere questo genere di esplorazioni. Anche l’esplorazione spaziale è ad un punto morto: le spedizioni su Marte rimangono ancora lontane, e quand’anche si raggiungesse questo obbiettivo non si vede cosa potrebbe venire dopo. Il raggiungimento stesso del Cosmo da parte dell’uomo, perlomeno nelle sue regioni più prossime (Luna e Marte), dovrebbe indurre chi oggi pratica l’alpinismo a chiedersi se veramente la pratica alpinistica meriti di essere ancora oggi un altare al quale immolare vite di padri di famiglia e amici, piuttosto che non qualcosa di diverso.

Nell’epoca di riscoperta del confine, del limite e della finitezza, anche la mistica della morte futurista nel perseguimento del “limite per il limite” acquisisce evidentemente un significato nuovo; primariamente perché il limes del cielo ormai si è spostato nel piano, irraggiungibile, delle profondità cosmiche, invitandoci dunque a ritornare “coi piedi per terra”, e secondariamente perché l’inevitabile fallimento della visione positivista, che vede nella distruzione di ogni limite la garanzia della felicità dell’individuo-monade, ci impone un ricongiungimento con le fondamenta terrestri dell’esistenza, piuttosto che con quelle metafisiche di un sempre più vago futuro e di un sempre meno promettente avvenire. In una società che riscopre il limite, nei confini, nella bioetica (gli aborti sono in costante calo), nell’avanzamento delle posizioni conservatrici tra le giovani generazioni, nonché la riscoperta delle tradizioni religiose, una ridefinizione del concetto di superomismo sarà non solo necessario, ma inevitabile. L’umanità senza limiti, del resto, non può che scontrarsi con la finitezza dell’esistenza, dalla quale non sarà salvata né dal buio, né dal mondo artefatto del cyberspazio e delle allucinazioni dei cosmisti. La montagna, sempre più, diventerà il tempio del ricongiungimento dell’uomo con sé stesso. Del resto, ha poco senso avvicinarsi al Cielo, se quel Cielo è stato spogliato del divino che lo ricopre, se esso ha smesso di essere Casa di Dio per configurarsi solo come “atmosfera”. Solo quando si comprenderà come il Cielo sia buio, se non c’è un cuore ad accoglierlo, si ritroverà veramente il senso dell’esplorazione montana, che non avrà più bisogno di ulteriori limiti da rompere, ma che si riproporrà incessantemente come una costante peregrinazione nella propria interiorità, disvelando, attraverso la mistica dell’ascesa, non già le proprie potenzialità fisiche, ma quelle intimamente spirituali, che non possono esservi disconnesse. Ambiente, spiritualità e senso di finitezza, saranno molto probabilmente i marchi distintivi dell’alpinista di domani. Un uomo che scalerà le Alpi di un’Europa mutata, non in cerca di un limite da rompere ma, nuovamente, di un punto di vista differente, sul mondo, ma primariamente su sé stesso.


Flying Over The Southern Alps” by Trey Ratcliff is marked with CC BY-NC-SA 2.0.

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