Il teatro di Camus per comprendere la pandemia

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Sessantuno anni sono passati dalla morte dello scrittore e drammaturgo francese Albert Camus, eppure il suo messaggio, spesso messo in ombra dalla mera patina estetizzante nella quale è avvolta la Parigi di quegli anni, rimane di un’attualità sconcertante.
Cosa può dirci Camus in tempi pandemici come quelli che stiamo vivendo? Tantissimo. I suoi lunghi studi sul concetto filosofico della rivolta, dell’apparato repressivo degli stati totalitari e della pena di morte, trasposti sia in romanzi (La peste, 1947) sia in opere teatrali (L’état de siège, 1948), sia in saggi (L’homme révolté, 1951), potevano sembrare esagerati in un momento, gli anni subito successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dove la Francia e l’Europa sembravano uscire dalle tenebre del totalitarismo. A ben vedere, invece, Camus non esagerava: sia perché dall’Elba al Pacifico, dall’Artico alle giungle del sud della Cina regnava un insieme di dispostivi totalitari molto simili a quelli appena sconfitti, sia perché la mentalità logico-scientifica adoperata al controllo dell’uomo era ed è una disposizione politica ancora perfettamente viva e vegeta, non solo ad Oriente della cortina.
Come ogni autentico amante dell’umanità, Camus amava troppo l’illogicità e le passioni di questa per vederle incasellare e regolare in un orologio sottoposto totalmente a criteri logici e scientifici. Il volontarismo nichilistico che contraddistingue gli esistenzialisti, a cominciare da quello del suo amico e compagno di resistenza Jean-Paul Sartre necessitava però notevoli sacrifici alle libertà, e l’epoca gioiosa della liberazione finale si allontanava sempre più, posposta al di là di complicati ma irrinunciabili travagli storici ed intellettuali. La rottura con Sartre avvenne principalmente su questi punti; si trattò di un processo progressivo e sofferto ma quantomai ineluttabile.
Prendere in mano oggi, nell’estate del 2021 un’opera teatrale come “Lo stato d’assedio” (L’état de siège), significa fare un viaggio nella contemporaneità molto più che nella Spagna franchista in cui la rappresentazione pare essere ambientata (anche se manca ogni riferimento a date all’interno dell’opera). La Spagna, lo vedremo, è un pretesto, e la stessa dittatura di Franco, all’epoca ancora lontana dalla caduta, non è mai nominata. Le uniche autorità che vi appaiono, peraltro in maniera assai marginale sono il governatore di Cadice, la città nella quale è ambientata l’opera, i suoi alcaldes, ed il giudice Casado. Dittatori, parate, palchi e balconi rimangono totalmente fuori dall’opera, e del resto siamo di fronte non ad una polemica antifascista o anticomunista, quanto piuttosto ad un attacco a tutto tondo ai dispositivi totalitari nel loro complesso.
Nell’opera Cadice è una città laboriosa e felice, che prima di venire atterrita dalla fosca apparizione di una cometa, vive lo sbocciare di una luminosa estate con entusiasmo e voglia di vivere, quest’ultima ben rappresentata dall’amore dei due giovani Diego e Vittoria, la figlia del giudice Casado. La cometa, come da tradizione medievale, annuncia invece una pesante sventura sulla città. Il morbo della peste.
Va detto che mentre il celeberrimo “La peste”, romanzo che Camus pubblicò un anno prima, indaga la complessità dei rapporti umani in un contesto epidemico, il meno conosciuto “Lo stato d’assedio” si propone di indagare invece il modo in cui il morbo si compenetra con le istituzioni stesse, finendo per diventarne quasi consustanziale e portando gli obbiettivi del morbo e quelli dello Stato a divenire quasi perfettamente congruenti. Nell’opera teatrale, a differenza del romanzo, la peste si presente personificata: il morbo perde la sua peculiare impersonalità, non è più un nemico invisibile fatto da bacilli misteriosi, ma si è incarnato in una figura. Camus lo chiama inizialmente solo “l’uomo”, per poi promuoverlo a “Peste”. A metà strada tra un impiegato ed un sottufficiale dell’esercito, la peste si presente sotto le spoglie di un anonimo burocrate di provincia, coadiuvato dalla sua segretaria, armata di un taccuino e di una matita.
Notevole come, per prima cosa, la Peste senta l’esigenza di presentarsi a casa del governatore. Non certo per ucciderlo, quanto piuttosto per prenderne il posto. Prima di cominciare il suo lavoro, infatti, il morbo rivendica il potere politico. Di fronte al costernato, incredulo e spaventato uomo politico, la Peste da’ dimostrazione del suo potere uccidendo all’istante alcune persone: per farlo basta semplicemente ordinare alla sua segretaria, che in realtà altri non è che la Morte stessa, di scrivere il nome del malcapitato sul suo taccuino. Dietro promessa di avere, egli e la sua famiglia salva la vita, il governatore abdica e fugge da Cadice e la Peste si insedia al governo, non prima, però, di aver ottenuto la fedeltà dei burocrati della precedente amministrazione, cui parimenti è stata garantita salva la vita.
Come un vero uomo di Stato la Peste comincia a governare. Per decreto, s’intende. Le prime decisioni politiche prese dalla Peste sono, illogicamente ma non troppo, provvedimenti anti-contagio. La Peste legifera dunque contro sé stessa? Andiamo con ordine. Il primo alcalde lavora alacremente nell’annotare ogni legge, ogni disposizione, ogni imperativo che la Peste comandi. Le nuove leggi escono con rapidità fulminea: gli araldi cittadini non fanno in tempo ad annunciarle ed ecco che ne sono uscite di nuove. La prima legge, anche qui, riguarda il distanziamento. Occorre primariamente separare gli uomini dalle donne. L’amore, come ogni emozione, reca con sé il pathos, il patetico. Una società organizzata e ben amministrata non può permettersi un simile elemento di turbamento. Se si vuole resistere in maniera organizzata al contagio il sentimento deve lasciare spazio all’organizzazione. Segue, subito dopo, il coprifuoco:
“Tutti i fuochi dovranno essere spenti alle ore nove della sera, e nessun cittadino resterà in luogo pubblico, o potrà circolare nelle vie della città senza un lasciapassare regolarmente rilasciato, che sarà concesso soltanto in casi estremamente rari e sempre in via arbitraria. Chi contravverrà a queste disposizioni sarà punito a rigor di legge.”
Comincia dunque una fuga precipitosa di alcuni abitanti verso il mare. Le barche del porto sembrano una via perfetta per lasciare la città che progressivamente precipita in quello che oggi chiameremmo lockdown.
Un altro messaggero interviene subito dopo ad annunziare come sarà proibito prestare assistenza ai contagiati. Questi vanno, invece, segnalati alla pubblica autorità che se ne prenderà cura, ma prioritario è isolarli. Ed ecco un altro messaggero ancora, annunciare un nuovo provvedimento che, in questo 2021, risuona familiare:
“Allo scopo di evitare ogni contagio per la comunicazione dei fiati, in quanto le parole stesse possono essere veicolo all’infezione, ordine è fatto a ciascun abitante di conservare ininterrottamente in bocca un tampone imbevuto d’aceto: questo li preserverà dal male e li abituerà alla discrezione e al silenzio”.
Il primo atto si conclude così con la spiegazione, da parte della Peste, delle ragioni del suo “regime”. Ella è venuta a portare l’ordine. La vita degli abitanti di Cadice viene irregimentata in una gabbia d’acciaio di norme anti-pandemia progressivamente sempre più arbitrarie ed incomprensibili. Lungi dall’essere prove della loro incompetenza, l’incomprensibilità e l’inefficacia delle norme sono uno dei motivi di vanto della Peste e della sua segretaria: l’obbiettivo non è essere efficaci nel proteggere dal contagio, che anzi imperversa o – per usare le parole della Peste stessa – “funziona”, quanto esserlo nella prostrazione. La segretaria lo afferma a chiare lettere: “E’ necessario che vi sentiate colpevoli, e non vi sentirete colpevoli fino a quando non vi sentirete stanchi. Vi stanchiamo, ecco tutto. Quando sarete sfiniti per la stanchezza tutto andrà da sé”.
Per giustificare di essere vivi e poter vivere non basta essere al mondo, bisogna esibire un apposito “certificato di esistenza”. Un certificato impossibile da ottenere se non passando attraverso una burocrazia impenetrabile e farraginosa la quale rilascia, al suo posto, un certificato provvisorio che può essere revocato in qualsiasi momento, portando così alla “radiazione”, ovvero alla morte per peste. “[…] il grande principio del nostro governo è che c’è sempre bisogno di un certificato. Si può fare a meno del pane e di una donna, ma di un certificato in regola attestante non importa cosa, non si può fare a meno.”, proclama vittoriosa la segretaria della Peste.
Non importa, quindi, che cosa si faccia, purché lo si faccia secondo logica. Tutto deve essere ordinato. Prima si moriva a vanvera, a caso, ora secondo un ordine preciso, ognuno con la sua brava cartella compilata. È questo che rende la Peste fiera e felice del suo lavoro. “Il destino è addomesticato” proclama vittorioso il morbo. È questa la sua vittoria, l’imprevedibilità della condizione umana sottomessa alla ratio della matematica, della logica e della scienza. Il fine ultimo? Il Nulla, come canta sardonico il pazzo e alcolizzato Nada (“nulla” in lingua spagnola), trotterellando accanto alla Peste ed alla Morte come un loro giullare. Non c’è più posto per l’amore, tantomeno per la sua forma romantica, le “idee irragionevoli” hanno perduto il loro diritto di cittadinanza. “Sarete tutti nella statistica”, proclama la Peste, la quale, da sé stessa, intende stornare ogni attributo grandioso tipico della tradizione. Non un tristo mietitore, non un “re negro” (così nel testo nda), non un mostruoso insetto, ma un insignificante burocrate che al posto del trono dispone solo di una sedia da ufficio e che non ha un palazzo ma al massimo una caserma inondata di scartoffie e pratiche. Come in Fahrenheit 451 di Bradbury, i riti funebri sono aboliti, così come ogni passione eccetto quella per la ragione astratta. “Il mio ministero è cominciato”, sentenzia il morbo dalla sua scrivania.
La tirannia si fa ascetica, igienica, sanitaria nel senso giacobino della parola tanto amato da Saint-Just. Si tratta di un Leitmotiv dell’intero percorso culturale camusiano, che sarà già presente nei capitoli più infuocati de “L’uomo in rivolta”, testo che non a caso condurrà alla rottura definitiva con Sartre. Le tirannie più populistiche non possono non degenerare in ascetismo pauperista, un’ideologia unica tanto logico-matematica quanto ospedaliera che ebbe nel terrore rivoluzionario di giacobini e sanculotti un’anticipazione sinistra. La Cadice governata dalla Peste somiglia in maniera drammatica alla Parigi nella quale, per usare le parole de “L’homme révolté”, “le sentenze ronzano compiaciute”. Il vegetariano e salutista Saint-Just che mandava a morte migliaia di nemici della Rèpublique sognava, come i populisti di oggi, una società ideale retta dalla virtù, la cui origine era da situarsi nella “purezza” del popolo. Una virtù naturale corroborata dalla Scienza, dal momento che per il vecchio Dio non c’è più posto. Il patibolo, come il taccuino della segretaria della Peste, è diventato, durante il terrore, il simbolo della Libertà. In entrambi i casi l’uomo si esprime al massimo del suo potenziale solo rimanendo incasellato in stringenti norme logiche volte a tutelare la purezza dei princìpi; su questo Saint-Just e la peste camusiana concorderebbero certamente.
Ne “L’uomo in rivolta” è chiaramente evidenziato come, nella visione populistica, se ogni bene viene dal popolo allora l’eclissarsi del bene non possa essere imputato che al popolo stesso. Al potere spetta dunque una funzione riconnettiva. Il popolo va ricondotto al bene originario e tale compito spetta al potere che lo esercita, se necessario, col patibolo e la repressione poliziesca. Del resto “è per il vostro bene” è un concetto affermato più volte dalla stessa Peste dello “Stato d’assedio”. Torna qui anche il motivo del silenzio. A lungo Saint-Just si era scagliato contro il silenzio codardo che regnava attorno ai troni dell’antico regime eppure, lo vediamo, nella Cadice della Peste il silenzio è imposto d’autorità. I riferimenti alla Rivoluzione Francese sono larvati ma, alla luce del saggio del 1951, evidenti. È lo stesso Camus a parlarci del silenzio che alla fine avviluppa lo stesso Saint-Just. Finito egli stessi al patibolo, il giovane rivoluzionario si richiude nel silenzio, roso dal disprezzo verso un popolo che alla fine non riesce a conformarsi alla Ragione Pura delle norme sanitarie imposte dal Comitato di Salute Pubblica. I princìpi rimangono “muti e fissi”, e non riescono ad incarnarsi, né nella Parigi rivoluzionaria né nella Cadice spazzata dall’epidemia, in un Uomo Nuovo. L’unico modo di conformarvisi è raggiungerli nel mondo astratto ed inconsistente del Nulla, morendo appunto, magari trascinandosi dietro di sé quante più persone possibili. Qui sta la tetra e grandiosa coerenza di Saint-Just e è questo forse il sogno segreto della Peste dello “Stato d’assedio”. Una Peste che non è più al servizio del vecchio Dio intento a punire i peccati dell’umanità, quanto piuttosto al servizio del nuovo dio, la logica stessa, allergica, come Saint-Just, al disordine, all’irragionevolezza, alle fazioni, e in fin dei conti alla natura umana, così aliena dal mondo freddo ed astratto dei numeri e dei laboratori. “Abbandonarsi a essi” – scrive Camus a proposito dei princìpi muti e fissi – “è in verità morire, e morire di un amore impossibile che è il contrario dell’amore”. Così muore, tra le altre cose, anche la speranza di una nuova religione basata sulla Dea Ragione: di fronte all’amara consapevolezza che il sangue dei colpevoli che scende a fiotti nei bois de justice non ha lo stesso potere mitopoietico di quello degli antichi martiri consacrati al vecchio Dio. Il sangue, al servizio dei numeri, ha perduto il suo potere magico, non rimane altro che putrefazione. Ironica fine per chi ha voluto bandire il pathos da ogni aspetto della vita umana!
Alla fine dell’epidemia di Cadice, così come al momento del rotolare della testa di Saint-Just, il vecchio di Dio non ritorna, l’umanità è ancora una volta da sola di fronte ad un cielo popolato di comete. Ma, ed è questa la speranza di Camus, è anche sola con sé stessa, ovvero con la sua umanità. Solo in un’autentica umanità, vissuta a pieno nella passionalità, nel desiderio dell’altro, dell’incontro e della vita, si troverà salvezza dal tetro ingranaggio di un’assurda peste che legifera nella pretesa di salvarci da sé stessa. A riuscire nell’intento di salvare la libertà e l’umanità sarà, ancora una volta, quella misteriosa forza di gravità che non risponde ad alcuna “ragione pura”: l’Amore.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.