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Il fascismo come oppio dei popoli

Il fascismo come oppio dei popoli

Nell’ultimo scritto dedicato a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il preambolo alla trattazione vera e propria del tema centrale dell’articolo, ovvero il contenuto nichilistico del filosofo di Stoccarda, si accennava rapidamente all’errata valutazione che la critica politica ha fatto, spesso in malafede, del rapporto tra il sistema filosofico hegeliano e l’esperienza storica del nazionalsocialismo tedesco per come è stato conosciuto nella sua esperienza governativa del 1933 al 1945. In particolare, si insisteva sui legami sottovalutati con quella che invece era la filosofia di Nietzsche, ed in particolare con l’aspetto meno approfondito in tal senso, ossia la dottrina autotelica dell’eterno ritorno dell’uguale, piuttosto che la critica ai risentiti ed ai malriusciti (Schlechtwegkommen).

In questa sede si è ritenuto invece più interessante sviluppare la tematica del nichilismo, e dunque solo in parte ascrivibile a Nietzsche, rapportata ai fascismi storici, e soprattutto al nazionalsocialismo. In particolare, ciò che ad opinione di chi scrive oggi costituisce motivo di maggiore interesse non è tanto la presenza di elementi nietzscheani all’interno della Weltanschauung dei vari fascismi, quanto piuttosto come l’idea di nichilismo e l’esperienza storica del regime di Hitler in senso stretto siano venute ad associarsi nella storiografia e nella critica filosofica della seconda parte del Novecento, ma soprattutto contemporanea. In ambito temporale, ciò che più sembra di interesse oggi è la maschera assunta (o per meglio dire affibbiata) ai fascismi dopo la caduta del regime, ovvero l’immagine del fascismo dopo il fascismo, la svastica come brand, ed il nazismo come icona pop oscura, ed al contempo presenza vivida, ancorchè impalpabile, nelle inquietudini del moderno uomo occidentale.

Se Friedrich Nietzsche, in un frammento del 1887 aveva definito il nichilismo come la condizione di mancanza di scopo, l’origine del nichilismo, ovvero l’entrata del “più inquietante di tutti gli ospiti” nella mensa della cultura europea, può essere ascritta già all’emersione della definizione della natura come res extensa da parte di Descartes nelle “Meditazioni metafisiche” del 1641. Il disincanto della natura, che doveva condurre necessariamente al disincanto dell’uomo ed alle teorie darwiniane, mise di fronte alla cupa luce dei lumi una natura liberata da qualsivoglia teleologia, nella quale l’uomo appariva tanto disperatamente libero quanto indifferente ai vecchi valori di bene e male. Il giovane nichilista Bazarov, protagonista di “Padri e figli” di Turgenev, inquadra perfettamente il tipo umano egemonico nel mondo occidentale contemporaneo, un mondo occidentale sviluppato nel quale sono però al contempo emersi tutti i limiti dei finalismi positivistici, così come gli ottimismi riposti sulla Raison di derivazione illuministica. Nella “profezia” nietzscheana nella quale il filosofo collocava sé stesso e le sue tematiche nel ruolo di pietra miliare della discussione filosofica dei prossimi duecento anni, stava già tutta la drammaticità angustiata ed al contempo l’esaltazione per quali scenari sarebbero stati posti dal nichilismo sulla scena filosofica e dunque anche politica. L’idea di un mondo senza Dio, per dirla con gli atei, o di un mondo abbandonato da Dio, per dirla invece con i vetero-conservatori del genere di De Maistre, vive nell’irrequieta condizione di angosciosa esistenza carnale calata in un interregnum terrestre (e al contempo illusorio) della quale non si sa bene cosa fare. Venuto meno lo scopo non poteva che venire meno anche la direzione. Venuta meno la direzione non poteva non venire meno anche la prospettiva finalistica sulla quale riposano gli Stati e le comunità umane, ovvero quell’idea di “dover fare qualcosa di grande insieme” che da sempre funge da collante sociale agli stati nazionali.

In tal senso, la deprecata atomizzazione individualistica sembra più interpretata dal liberalismo, che non causata da esso.
L’angoscia del nulla, il timore individuale della morte fisica o quello scientifico della cadaverizzazione termica dell’universo, dominano incontrastate le società della modernità, che non trovano più consolazione né nella religione, né tantomeno nei due surrogati morali che dovevano sostituirla: da un lato le teleologie dialettico-materialiste del marxismo, e dell’altro l’umanitarismo solidal-utilitaristico liberale. Ma qual è il filo tra questo tema angoscioso e quello del fascismo col quale abbiamo esordito in questo scritto? Il nesso sta precisamente nel ruolo ricoperto dai fascismi, e in special modo dal nazismo tedesco, nel ruolo dell’inconscio delle opinioni pubbliche occidentali: esso è la malta cementificatrice, ed il “qualcosa di grande da fare insieme” si configura nell’evitarne il ritorno. Ma il discorso appare ai nostri occhi di una profondità molto più acuta e drammatica, tale cioè da richiedere una riflessione ulteriore, che vada oltre a quella sul ruolo, già da altri illustrato in maniera esauriente, di spauracchio. Non soltanto, infatti, il nichilismo si presenta come l’elemento perturbatore in senso erosivo delle società in senso stretto, ma esso procede con il cannibalizzare anche quelle che lo hanno maggiormente veicolato; sottraendo scopo e direzione, tale inquietante ed invisibile ospite toglie l’ossigeno non soltanto alle cosiddette “società tradizionali”, ma anche alle comunità politiche che di quel disincanto originario del mondo si ritenevano eredi. Lo stesso fine minimo, tipico dei liberalismi, della prosperità per tutti, perde di senso in un orizzonte di nichilismo puro e coerente con sé stesso. È qui che il fascismo, o per meglio dire la sua larva, trova senso di esistere e concretizzarsi sempre di più. Descritto, spesso non a torto, con tinte nichiliste e razional-strumentali dalla filosofia critica della Scuola di Francoforte, il regime di Hitler si presentava come candidato ideale a ricoprire il ruolo di incarnazione postuma di quel nichilismo che prima era stato soltanto un terrificante fantasma, ben più spaventoso di quello del comunismo sul quale avevano ironizzato Karl Marx e Friedrich Engels nell’incipit del Manifesto. In particolare, il nazionalsocialismo si presentava come candidato ideale per due ragioni precipue: da un lato esso aveva dimostrato, tramite la morte organizzata su scala industriale, cosa avrebbe potuto significare una scienza svincolata dai guinzagli delle morali laiche, da un lato esso era stato sconfitto militarmente e storicamente.

Quest’ultimo aspetto ricopriva un ruolo di capitale importanza laddove era necessario che il nichilismo, vero e proprio nemico interno per la stabilità delle società organizzate di oggi, fosse mostrato come qualcosa di sconfitto. L’obbiettivo era quello, nemmeno troppo larvato, di riaprire le porte ad una visione teleologica e finalistica della politica e delle esistenze, nella quale si potesse scorgere un barlume di morale all’interno di una prospettiva storica. Si cercava in buona sostanza di riabilitare, questa volta da un punto di vista laico-umanitario, l’idea di una provvidenza  -ancorchè non divinizzata- che operasse benignamente in favore dell’uomo proteggendone ed indirizzandone l’incedere nella storia. In particolare, gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale avevano bisogno di essere eternizzati affinchè il presente potesse tornare ad avere lo scopo del quale Nietzsche aveva diagnosticato la caduta e lo smarrimento. Il terrificante nemico invisibile aveva dunque bisogno di un corpo, e di un corpo del quale fosse ravvisabile, in maniera totalmente rassicurante, l’avvenuta sconfitta. In tal senso è evidente l’idea di quanto tale concezione, ancorchè inconscia, si presenti a noi come versione edulcorata e laicizzata del mito biblico. Le nazioni cristiane, che avevano come nemica la paura della morte ed il nichilismo tanto quanto quelle di oggi, sentirono il bisogno di traslare tale concetto nella figura di Satana e nella paura del nulla che tale figura incuteva. L’incorporeità di Satana fu incarnata, vista l’inesistenza fisica dei demoni, tanto in questo mondo fisico (tramite il concetto di peccato originale), tanto quanto in quelli che di Satana si dichiaravano o si supponevano adepti (in particolare streghe, Ebrei, infedeli ed altre categorie all’epoca emarginate). In tale prospettiva, il nichilismo veniva vestito degli abiti di Satana esattamente come oggi esso viene vestito con l’uniforme bruna di Hitler. Entrambe le figure sono peraltro dotate di una straordinaria dicotomia: entrambe infatti sono state sconfitte, e la loro sconfitta è senza appello (Satana sarà in eterno confinato all’inferno tanto quanto Hitler), ma al contempo entrambi sono presentati come entità in grado di tornare nascondendosi dietro maschere sempre nuove. La capacità di Satana di mutare forma a piacimento è nota, così come proprio nella natura di –Nihil del nichilismo sta la sua capacità di essere tutto ed al contempo nulla (qui sta anche l’enigma della sua assoluta libertà che è tanto disperata quanto assoluta). In tale prospettiva non sarà casuale notare come nel Faust di Goethe l’ormai venerando sapiente protagonista decida di darsi alla demonologia nel momento esatto in cui acquisisce la consapevolezza kantiana che “nulla è dato sapere”, quasi a simboleggiare la parentela tra le antiche seduzioni egoistiche dell’occultismo e la moderna sovrabbondanza di conoscenze scientifiche che però sfocia in una profonda “ignoranza dello scopo” e dunque in una noia senza rimedio. Qui Faust trascende l’orizzonte del bene e del male, e pone al servizio della sua volontà concupiscente, del suo appetitus spinoziano, tutte le vecchie conoscenze che furono prima immagazzinate secondo una prospettiva organica ed orientata ad un bene morale. Si ravvisa qui la similarità tra la condizione di Faust, annoiato dalla sua quasi totale onniscienza (seppur continuamente incatenata dal desiderio carnale della bella Margherita) e quelli dei popoli occidentali moderni, sepolti tanto dalla scienza e dal benessere quanto avviluppati dalla matassa nichilistica della mancanza di scopo di questi beni così faticosamente messi da parte nel corso della storia.

Secondo la vulgata corrente, anche la Germania avrebbe seguito, come Faust, i consigli di Mefistofele (Hitler ed il suo seguito), e per farlo avrebbe utilizzato strumentalmente proprio tutta quella scienza che un tempo fu accumulata secondo prospettive nobili ed umanitarie. L’appetitus per il dominio assoluto del mondo sostituisce quello faustiano per la bella Margherita, ed è qui facile ravvisare la similitudine con la tematica francofortese della personalità autoritaria la quale soffrirebbe una sorta di deficit di amore, e che in virtù di tale carenza si incammina lungo la via di un raggelante sadismo megalomane.

Così come la leggenda messa per iscritto da Goethe, la storia del nazismo vorrebbe evidenziare molto di più rispetto alla mera vicenda storica in sé: l’appetitus, la mera volontà del singolo (popolo, individuo o classe non ha importanza) non può avere l’ultima parola, poiché un intelligenza benigna permea la storia e sanziona l’arroganza di pochi quando decidono di liberare gli strumenti dell’emancipazione umana dal loro fine, che sarebbe già stabilito e irreversibile. In tal senso, la sconfitta del male è sempre certa, ma al contempo il dovere di combatterlo rimane assoluto, pena la sofferenza tanto inutile quanto evitabile di una moltitudine di innocenti e “senza voce”, nell’emersione dei quali si espliciterebbe il fine del disegno storico retto da questa misteriosa intelligenza benigna ed empatica.

Tuttavia, la natura posticcia del travestimento, tutto umano (troppo umano!) del nichilismo, emerge tragicamente mano a mano che la storia procede nel suo corso. Il nichilismo continua a prendersi sempre più spazio all’interno delle società occidentali, e tanto più esso avanza tanto più queste società sono costrette ad una sempre più pervasiva chiamata alle armi contro la sua presunta incarnazione storica: solo così si spiega una paranoia antifascista che cresce di pari passo con l’allontanamento temporale del fascismo come fenomeno storico, esattamente come l’attività dell’Inquisizione crebbe forsennatamente con l’affermazione del nichilismo connessa con la riforma protestante prima e con l’Illuminismo poi. In tale fase storica, la società liberale contemporanea perseguita nel fascismo (o nei suoi proclamati successori) ciò di cui invece è responsabile o più precisamente manchevole la scienza, la quale si presenta insolvente sul banco della storia, dalla quale essa era stata liberata dietro la promessa di dimostrare la presunta razionalità dell’esistenza in maniera più consona ai bisogni dell’uomo. La scienza non si è dimostrata capace di risolvere questa equazione, ma al contempo una società liberale, che si è a sua volta pesantemente indebitata con la scienza identificandosi quasi totalmente col progresso ed il benessere da essa creati, non può attaccarla.

I fascismi a loro volta non sono stati capaci di risolvere l’equazione lasciata aperta dalla scienza, né sembrano a loro volta capaci di attaccarla, dipendenti come sono da essa nei loro bisogni di produrre forza per la forza e potenza per la potenza; essi assumono però, pur nolenti, quell’utilità accessoria sotto forma di alienazione che Marx imputava invece alla sovrastruttura religiosa: quella di oppio dei popoli. A tale scopo, la ripresa del passo di Marx appare tanto più appropriata quanto più si riprendono alla lettera, oltre ad essa, anche le considerazioni ad essa contigue presenti nell’[Introduzione] del filosofo di Treviri. In particolare, Marx illustra come la definizione di oppio dei popoli non contenga un giudizio dispregiativo, cosa che invece conteneva negli scritti di Feuerbach e Heine, quanto piuttosto di commiserazione. La religione assumeva infatti il ruolo di “oppio” consolatore, ma non era la causa del male medesimo. Fedele al suo radicale materialismo, Marx non concepiva come un elemento immaginario potesse essere causa di ingiustizie reali; la conclusione fu dunque che la religione costituisse non la miseria in sé, quanto piuttosto “espressione della miseria reale ed insieme la protesta contro di essa”. Ancor più chiaramente, Marx si spinse ai confini del nichilismo continuando con “la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore”, laddove, secondo Nicolao Merker, per “mondo senza cuore” si allude esattamente alla prospettiva nichilistica “di un mondo dominato da impulsi egoistici”. In questo breve passo dell’[Introduzione], oltre a venire un poco attenuata l’irreligiosità di Marx, è facile ravvisare la medesima natura narcotica dell’odierna ombra illusoria del fascismo, tramite la quale l’antifascismo sente il forsennato bisogno di inoculare la larva del nazismo nelle vene dei corpi sociali per tentare di rianimarli. In tal senso, l’idea del nazismo, purchè sconfitto, sopperisce precisamente alla vivida e cupa coscienza di vivere in un “mondo senza cuore”. La “miseria reale” qui assume i toni foschi di una miseria che non è più quella materialistica di Marx ed Engels, quanto piuttosto quella esistenziale ed epistemologica tratteggiata da un pessimista cosmico quale Philipp Mainländer. In tal senso, la furiosa rievocazione continua della Seconda Guerra Mondiale, la pratica ossessiva della “memoria” è precisamente il marxiano “sospiro della creatura oppressa”, la rivendicazione dell’uomo disilluso dal suo ateismo che cerca disperatamente di convincersi di una teleologia benigna che opera silenziosamente muovendo gli ingranaggi della storia.

L’insostenibilità della visione nichilistica di una storia indifferente alle sorti dei poveri del mondo e dei senza voce, così come la prospettiva di un nulla eterno dietro la porta della morte, sono la malta segreta che tiene unita l’impalcatura di persecuzione antifascista, del quale l’esperienza storica del nazismo è un fondamento esistenziale molto profondo, del quale il ruolo di spaventapasseri per gonzi rappresenta solo il più superficiale ed al contempo il meno storicamente utile. In virtù di queste considerazioni, chi scrive non condivide l’idea, non supportata dai fatti, che vedrebbe un “sistema di potere” occidentale costantemente impegnato nell’opera di rimozione storica dei fascismi. Al contrario, se i fascismi del Novecento hanno assunto la funzione di cui sopra, al potere è necessario che essi siano continuamente rievocati, ricordati, animati. Le proposte di demolire alcuni loro lasciti storici, come l’obelisco Mussolini dell’EUR o la scritta arborea “Dux” di Antrodoco, avvengono non per volontà di rimuovere i fascismi dall’inconscio collettivo, quanto per compiere una definitiva transustanziazione alla rovescia del fascismo da un piano fisico ad un piano “spirituale”. I fascismi devono uscire dalla storia per entrare in una prospettiva ribaltata rispetto a quella cattolica del Corpo di Cristo. Per fare questo, si deve abolire completamente l’idea di una diversità e di una separazione ontologica tra noi ed il fascismo storico (rappresentato da monumenti, simboli o vestigia) e il fascismo deve essere identificato non tanto in qualcosa di concluso, quanto in qualcosa di eterno, che vive in noi, del quale siamo ontologicamente colpevoli per il semplice fatto di essere nati. In tale scenario, esattamente come l’idea del Peccato Originale, tale concezione ci avviluppa sì in una concezione di scissione e di odio verso noi stessi, ma al contempo fornisce un simulacro laico-umanitario allo scopo perduto di Nietzsche. La lotta contro sé stessi, contro il fascista interiore, sostituisce lo stilema ebraico-cristiano della lotta contro il demonio interiore, rappresentato dagli appetiti fisiologici non casualmente sedotti da Mefistofele. In tal senso, alle puntigliose raccomandazioni catechistiche circa la vita privata e la morale quotidiana cristiana da applicarsi ogni giorno, nella quale Satana è combattuto in ogni piccolo dettaglio anche insignificante della nostra esistenza, sembra fare da specchio la dottrina postmoderna della crociata contro il foucaultiano micro-fascismo, o fascismo posturale, nella quale il male primevo, l’ur-fascismo, si anniderebbe nelle espressioni linguistiche e in altri fenomeni solo all’apparenza marginali quali ad esempio i pronomi gender-neutral e le parole “madre” e “padre”.

Il dilemma del nichilismo si presenta quindi, agli occhi degli occidentali del XXI secolo, nella forma di un nodo gordiano insoluto, ed al contempo di un saliente inevitabile lungo la via che conduce alla perpetuazione della civiltà europea (essendo infatti il nichilismo lo sposo della scienza, e non del liberalismo come erroneamente ritenuto, esso non scomparirebbe con la morte della vituperata “civiltà occidentale”, ma farebbe a pezzi una dopo l’altra tutte quelle destinate a succedergli). Ancora oggi l’enigma dello scioglimento del nodo gordiano, che non a caso il mito pone come “conditio sine qua non” alla costruzione di un impero universale, rimane paradigmatica, e la lezione di Alessandro Magno rimane esemplare. La lezione e la concezione nietzscheane della volontà di potenza si qualificano come eterne e senza tempo: ancora una volta il nodo gordiano sarà sciolto non da chi si interrogherà su come scioglierlo, ma di chi deciderà di scioglierlo. A tale scopo però occorre una condizione emergenziale, se non addirittura, per dirla con Sloterdijk, uno “stato di morte apparente” ed al contempo insopportabile, che spinga al gesto estremo l’Alessandro del domani. Il fascismo, nella forma di narcotico ed al contempo di larva evocata necromanticamente con scopi paralizzanti, ha questo preciso fine: impedire la coscienza della morte che sopraggiunge, rassicurarci, tramite la sua morte storica, della nostra immortalità, e dunque rimandare in eterno l’appuntamento con lo stadio dialettico finale del nichilismo, prodromo della definitiva liberazione dell’Europa dalle catene della morale degli schiavi.

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