Il califfo che non c’è

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
Per ovvie ragioni geopolitiche, il tema del dialogo con l’Islam, specialmente se si parla delle sue varianti fondamentaliste, assume rilevanza importante nelle cancellerie e nelle opinioni pubbliche occidentali. Una delle più grandi difficoltà in termini di dialogo con la religione di Maometto è sicuramente la mancanza di un interlocutore unico, cui ci si possa rivolgere in maniera universalmente riconosciuta dai musulmani per trattare dei temi più importanti dell’agenda politica mondiale. Manca, sostanzialmente, un “papa” musulmano che sia di facile referenza durante le trattative e gli incontri diplomatici e culturali, costringendo così gli attori della politica non islamica a rivolgersi ad una galassia di personalità non universalmente riconosciute, spesso divisive e non sempre affidabili. Certo, l’Islam non è un blocco unico, e, esattamente come nel cristianesimo, non sono mancati scismi, polemiche ideologiche ed eresie; il problema tuttavia rimane, e anche se il Papa cattolico non rappresenta l’universalità dei cristiani possiamo ben dire che esso rimanga la voce più autorevole di essi, la cui risonanza è riconosciuta da quasi tutti. Tutto ciò all’Islam manca, ma perché? È sempre stato così?
Una religione senza sacerdoti
La risposta è complessa. Come molti sanno, l’Islam non ha una classe sacerdotale come invece ce l’ha il Cattolicesimo romano o l’Ortodossia. Gli imam che presiedono alle preghiere nelle moschee, non celebrando alcun rito o consacrazione, non sono in alcun modo assimilabili ai sacerdoti cattolici, ma sono paragonabili piuttosto a “lettori” del Corano e direttori delle preghiere, in un ruolo non molto dissimile da quello dei pastori del protestantesimo o dei rabbini ebraici. Il fatto che l’Islam non possieda una classe sacerdotale nega, ovviamente, anche l’importanza e la necessità di dotarsi di un sommo sacerdote, ossia di una figura eminentemente spirituale sul quale ricade l’onore e l’onere di avere l’ultima parola in materia riti e di fede. Nell’Islam questo non solo non è possibile, ma è anche illecito: è infatti il Corano, la cui esistenza per i musulmani prescinde dalla stessa Creazione, ad essere l’unica fonte di sapienza in materia di fede. Per molte scuole islamiche (madhhab), il Corano non può nemmeno essere interpretato (ta’wil), ma soltanto studiato e consultato come fonte di diritto secondo i suoi significati più strettamente letterali. Non esiste quindi la necessità di una figura religiosa che proclami dogmi ex cathedra ma basta, in tal senso, l’esistenza di giuresperiti e più in generale di “figure di fiducia” ai quali autorità e privati cittadini possono rivolgersi in caso di controversie, dubbi e necessità di consigli. Eppure, non è sempre stato così. Un’autorità suprema dell’Islam (sunnita) è esistita fino a poco meno di cent’anni fa, e si tratta del Califfo. Ma chi sono, o meglio chi furono, i califfi?
Cento e uno califfi
In Occidente siamo abituati a sentir parlare di “califfi” in maniera assai imprecisa, spesso confondendo il nome di tale qualifica per una sorta di titolo nobiliare o carica politica come “sultano” o “emiro”. Nulla di più sbagliato. Ma occorre partire dall’inizio. La sera dell’8 Giugno 632 moriva a Medina il profeta Maometto, sigillo dei Profeti, ovvero, nella tradizione islamica, l’ultimo ed il più importante di essi. Alla morte del fondatore dell’Islam le sue armate avevano ormai un saldo controllo su tutta la penisola arabica e guardavano già minacciosamente verso la Persia zoroastriana e l’impero bizantino cristiano. La necessità di trovare un successore a Maometto come capo politico del nuovo “impero” musulmano fu subito pressante e di primaria importanza: oltre a continuare l’espansione dello stato occorreva, ancor prima, implementare la diffusione dell’Islam stesso e proteggerne l’ortodossia coranica da eventuali scissioni interne che avrebbero potuto disperderlo. Tuttavia, come già detto, Maometto era stato dichiarato da Allah stesso “ultimo dei profeti”, e ciò escludeva categoricamente che se ne potesse nominare uno nuovo. Ciò che occorreva, poiché il Corano ancora non era stato trascritto ma solo tramandato oralmente, era invece una figura che fosse stata vicina a Maometto e che potesse conoscere nel miglior modo possibile cosa Maometto avrebbe detto e fatto in ogni situazione.
Il termine arabo khalifa, che in italiano si può tradurre con “vicario”, riassume bene il tipo di figura che i primi compagni di Maometto, i cosiddetti pii antenati (salaf al-ṣaliḥīn), cercavano per farne le veci. Il termine vicario però non deve trarre in inganno per la sua vicinanza alla qualifica del Papa cattolico come “vicario di Cristo”. Mentre i Vangeli infatti sembrano indicare abbastanza chiaramente la necessità dell’edificazione di una chiesa a partire dall’apostolo Pietro, nulla, sia nel Corano sia nella Sunna, accenna alla necessità di dotarsi di un “califfo” o altre figure similari: essa fu piuttosto una necessità di ordine pratico dettata dalle contingenze storiche e dalla delicata situazione in cui si trovavano i musulmani alla morte del loro Profeta. La scelta per la dignità di califfo ricadde, in maniera quasi unanime su quello che era stato il più intimo amico di Maometto, suo suocero Abū Bakr, detto “al-Ṣiddīq”, il grandemente veritiero. Il cugino di Maometto, ʿAlī ibn Abī Ṭālib, anch’egli futuro califfo ed assente al momento della decisione in quanto impegnato nelle meste cerimonie di commiato al profeta, non approvò la nomina, che a suo giudizio spettava a lui, ma rimase comunque fedele alla causa di Maometto e dell’Islam. Come capo dello Stato Islamico o, come più solito sentire in Occidente, dell’Impero arabo, Abū Bakr esercitava i classici poteri di sovrano assoluto, mentre in materia di fede la sua autorità, pur rispettatissima in quanto proveniente da una grande amicizia col Profeta, si qualificava più nell’accezione di grande conoscitore del Corano e “difensore” della fede, più che non come “sostituto” di Maometto. Dopo la morte di Abū Bakr, avvenuta dopo soli due anni di califfato, gli successe ʿUmar ibn al-Khaṭṭāb il quale, oltre alle importanti conquiste in Mesopotamia, Persia ed Egitto, fece stilare le norme per l’elezione dei nuovi califfi, demandando a un consiglio di giuresperiti e compagni del profeta, denominato Shura, il compito di eleggere il suo successore. La Shura, più che avere una funzione “democratica” era invece stata pensata per limitare al massimo ogni controversia su chi fosse il più meritevole a succedere alla carica di Califfo: un provvedimento lungimirante che però riuscì solo in parte ad evitare sanguinosi conflitti per le successioni.
La Shura elesse, come successore di ‘Umar, il genero di Maometto ʿUthmān ibn ʿAffān, cui i musulmani riconoscono unanimemente l’importante merito della prima trascrizione completa del Corano. L’atto di trascrizione, non privo di numerose insidie, fu un atto capitale nella storia dell’Islam. Essendo stato infatti tramandato oralmente per quasi trent’anni dopo la morte di Maometto, numerose adulterazioni, contraffazioni e versioni apocrife della rivelazione avevano cominciato a diffondersi nei territori sotto controllo islamico. Per evitare che tutto ciò potesse portare ad una deviazione dall’ortodossia, ‘Uthman, che aveva conosciuto il Corano direttamente da Maometto, diede inizio alla trascrizione, contribuendo così indirettamente a disattivare la necessità di una figura che facesse da “interprete” del Corano slegata dal potere politico. Nonostante fosse stato un grande conquistatore, ʿUthmān fallì nel suo proposito di mantenere la coesione interna dell’Islam. Osteggiato da più parti, anche a causa di una sua politica nepotista, venne assediato nella capitale Medina da un’armata egiziana ribelle e assassinato alla caduta della città. La morte violenta di ʿUthmān aprì una gravissima crisi all’interno dell’Islam, i cui risvolti sono evidentissimi ancora oggi nella spaccatura che sussiste tra musulmani sunniti e sciiti.
Per acclamazione, alla morte di ʿUthmān, fu dichiarato Califfo l’affezionatissimo cugino di Maometto, ʿAlī ibn Abī Ṭālib. Pur essendo notoriamente ʿAlī un piissimo credente ed un veterano di tutte le guerre condotte dall’Islam fin dai tempi delle sue origini, la sua ascesa al califfato fu duramente contestata da altri compagni del Profeta, cui si aggiunse anche il pesantissimo veto di Aisha, vedova del profeta. La prima guerra di successione islamica era scoppiata. I ribelli radunarono un esercito per affrontare ʿAlī e deporlo, ma l’esperto generale di Maometto li sconfisse duramente a Bassora, in Irak, fatto che comportò la morte in battaglia dei compagni ribelli ed il forzato ritiro a vita privata di Aisha. Lungi dal pacificare la situazione, la sorte dei ribelli ed il duro trattamento riservato ad Aisha avvelenarono i rapporti tra i “sunniti” i fedeli alla “consuetudine” (Sunna) della vecchia linea califfale di Abū Bakr, ed i sostenitori di ʿAlī, i futuri musulmani sciiti. Timoroso, e con ragione, per la propria vita, ʿAlī spostò la capitale dell’Impero dalla città araba di Medina, sede della corte fin dai tempi di Maometto, alla più sicura e difendibile cittadina di Kufa, in Iraq. La decisione, tuttavia, lo separò ancor di più dai governatori e dalle famiglie più influenti sunnite, ed i risultati non tardarono a rendersi manifesti quando il potente Muʿāwiya ibn Abī Sufyān, governatore della Grande Siria, gli si ribellò mettendone in dubbio la legittimità.
Muʿāwiya sostenne l’invalidità della precipitosa elezione di ʿAlī a nuovo califfo date le circostanze poco chiare della morte del suo predecessore ʿUthmān. Questa obiezione gli costò una dichiarazione di guerra da parte di ʿAlī, che lo sconfisse duramente nella battaglia di Siffin, ma che gli risparmiò la vita in quanto Muʿāwiya si appellò alla legge islamica chiedendo un regolare arbitrato sulla legittimità del califfato di ʿAlī. Il cugino di Maometto, probabilmente desideroso di porre fine ad ogni dubbio sulla sua legittimità, risparmiò la vita al ribelle ed accettò, certo di vincerlo, lo svolgimento dell’arbitrato, cui convennero numerosi dottori di legge (faqih) da tutto il mondo musulmano. L’arbitrato, che si svolse in Transgiordania, si limitò tuttavia a ad una dichiarazione di compromesso, constatando soltanto come ʿUthmān fosse morto “ingiustamente” ed in circostanze “disdicevoli”, ma si guardò bene dal prendere una posizione più chiara in merito al Califfato, pur non dichiarando mai invalida la nomina di ʿAlī. La situazione entrò in stallo e Muʿāwiya si ritirò in Siria mentre ʿAlī si ritrovò ad affrontare la rivolta dei Kharigiti, che lo accusavano di non aver fatto valere i suoi diritti. Da un sicario kharigita, infine, ʿAlī venne ucciso il 28 febbraio 661, mentre entrava in moschea per le preghiere del mattino. La morte di ʿAlī spalancò a Muʿāwiya le porte del califfato: l’ex governatore di Siria divenne infatti califfo nella primavera dello stesso anno, dando inizio alla dinastia Omayyade di Damasco, rendendo così il califfato un’istituzione ereditaria.
Con la trasmissione ereditaria della dignità califfale e la fine dell’egemonia dei “compagni del profeta”, si accentuò lo iato tra la qualifica di “difensore” della fede e propagatore della fede, e quella di fonte di diritto. Se infatti i compagni del profeta potevano vantare di aver sentito direttamente le sue parole, gli Omayyadi potevano solo affidarsi al Corano e ai giureconsulti. Andò quindi ad affermarsi sempre più il concetto di Califfo come “protettore dell’Islam”, rispetto a quello di “sostituto di Maometto”, rendendo le prerogative del califfo più vicine a quelle del Basileus bizantino che non a quelle di un papa. La dinastia Omayyade spostò la capitale da Kufa a Damasco, e portò l’impero degli arabo-musulmani alla sua massima espansione, ai danni soprattutto di Costantinopoli e dei regni cristiani europei (in primis quelli spagnoli). I governatori delle varie province, gli emiri, divennero estremamente potenti sotto gli Omayyadi, e per assicurarsene la fedeltà i discendenti di Muʿāwiya fecero in modo che tali cariche fossero ricoperte, quando possibile, da membri della loro famiglia. La dinastia omayyade resse le sorti del Califfato per novant’anni, prima di capitolare di fronte alla ribellione del fervente predicatore e pronipote di Maometto Abū l-‛Abbās.
Quest’ultimo, che si appellava all’illegittimità dell’antica nomina a califfo di Muʿāwiya, prese il potere con relativa facilità grazie al supporto delle province persiane, e diede inizio alla nuova dinastia califfale degli Abbasidi. La capitale tornò a Kufa, prima di spostarsi a Baghdad (fondata proprio dagli Abbasidi), e tutte le province un tempo fedeli agli Omayyadi giurarono fedeltà al nuovo califfo, ad eccezione della lontana Spagna (al-Andalus), che invece rimase fedele al locale emiro omayyade che, in virtù della sua parentela con l’ultimo regnante della sua dinastia, due secoli più tardi si nominò a sua volta califfo dando inizio al cosiddetto “califfato di Cordoba”, al quale però furono fedeli solo i territori iberici e poche province nordafricane. Fu sotto gli Abbasidi che il faqih Abū al-Hasan al-Māwardī mise per iscritto per la prima volta quelli che erano, supportati dal massimo consenso possibile, i requisiti necessari per diventare califfi: la fede islamica, il sesso maschile, la maggiore età, l’essere in grado di esercitare mentalmente e fisicamente la funzione, integrità morale, buona – ma non necessariamente eccelsa – conoscenza della Sharia, capacità politica di difendere militarmente la Umma islamica.
Con l’invasione del califfato da parte dei mongoli di Hulagu Khan nel 1258, Baghdad venne saccheggiata e distrutta ed il califfo abbaside Abū Aḥmad al-Musta’sim venne messo a morte dagli invasori, causando l’estinzione del ramo califfale abbaside di Baghdad-Samarra. La carica di califfo passò dunque al ramo cadetto degli Abbasidi del Cairo, che governavano l’Egitto, pur sotto la pesante influenza dei Mamelucchi, per conto della vecchia dinastia irachena ormai detronizzata. Gli abbasidi egiziani ressero il Califfato fino al 1517, quando l’Egitto venne invaso dall’Impero Ottomano, diventandone una provincia. L’ultimo califfo abbaside al-Mutawakkil III dovette quindi cedere la dignità califfale al sultano ottomano Selim I. Con l’ascesa a califfo del sultano turco il Califfato sfuggì definitivamente dalle mani degli Arabi, rinforzando invece il ruolo dei Turchi come potenziali aggregatori dell’intero mondo sunnita dietro lo Stendardo del profeta. L’immagine dei Turchi, spesso considerati barbari dagli Arabi, ne risultò molto rivalutata di fronte all’intero mondo sunnita, e la stessa carica di califfo come difensore della fede tornò ad avere l’importanza che aveva ricoperto secoli prima. Con la sua associazione all’Impero Ottomano, il Califfato riguadagnò dignità, associandosi a quella che era una vera superpotenza dell’epoca e slegandosi dall’immagine ormai corrotta e disunita dei piccoli e litigiosi regni arabi del Medio Oriente eredi del vecchio impero di Maometto.
I sultani ottomani portarono lo Stendardo del Profeta (una delle reliquie più iconiche del califfato, andata perduta in Turchia negli anni venti), fin nel cuore dell’Europa, proponendosi non come alternativa, ma come diretta successione a quello che fu l’impero di Maometto e dei suoi primi compagni. Il prestigio del Califfato, come detto, ne guadagnò enormemente, ma risultò legato in maniera insolvibile alla Sublime Porta nel bene e nel male. Con l’inizio della decadenza dell’Impero Ottomano anche la dignità califfale andò a perdere lustro. La progressiva occidentalizzazione culturale dei sultani e dell’Impero generò un clima di sfiducia, quando non di aperta ostilità, in molti sudditi della Sublime Porta, specialmente nei territori non turchi del Maghreb e dell’Arabia, che reclamavano autonomia. Il fatto che queste contestazioni provenissero spesso e volentieri da ambienti religiosi conservatori e richiamantisi alle origini “ortodosse” del primo Islam contribuì non poco a delegittimare il ruolo di guida dei musulmani ricoperto dai califfi di Istanbul. Il processo si accentuò dopo la seconda metà dell’Ottocento quando divenne manifesta la debolezza ottomana nei confronti delle potenze coloniali europee. I movimenti proto-salafiti originatisi dalla Nahda maghrebina e le periodiche e feroci rivolte dei wahabiti nella penisola arabica, fecero sì che il Califfato si gettasse nell’avventura della Prima Guerra Mondiale ormai profondamente disunito e delegittimato agli occhi di gran parte dei musulmani.
La fine del Califfato e l’anarchia contemporanea
Con la sconfitta della Triplice Alleanza, l’ultimo sultano ottomano Maometto VI fu costretto a firmare l’umiliante trattato di Sèvres, che sancì sostanzialmente la fine dell’Impero. Divampò così la rivolta dei nazionalisti turchi in tutta l’Anatolia che sconfissero i legittimisti radunati nel cosiddetto “Esercito del Califfo” e dichiararono decaduto non solo il sultano, ma l’intero sultanato, trasformando la Turchia in una Repubblica laica con a guida Mustafa Kemal “Atatürk”. La fine del sultanato e la deposizione di Maometto VI non impedì tuttavia la nomina di un nuovo califfo nella persona di suo figlio, il principe Abdülmecid II, che divenne il centunesimo Califfo dell’Islam, il primo (e ultimo) a non essere al contempo anche un sovrano temporale. Come prevedibile, non avendo alcuna rilevanza spirituale, ma solo “civile” (per quanto questa separazione possa essere poco significativa nel mondo islamico), un califfo privo di potere politico non poteva evidentemente più rimanere fedele alla sua missione di difendere manu militari l’Islam. Oltre a ciò, Atatürk, che temeva comunque il potere mobilitante di una carica dalla così lunga e nobile storia, proclamò l’abolizione dell’istituzione califfale tout court, che venne formalizzata nel 1924; Abdülmecid II venne quindi esiliato a Parigi, dove morì in anonimato il 23 agosto del 1944, due giorni prima che le forze alleate liberassero la città dalle truppe del Terzo Reich.
L’esilio prima e la morte poi, di quello che era stato il centunesimo califfo dopo Abū Bakr, non destò, invero, particolari reazioni di commozione vista ormai la laicizzazione progressiva della società turca e l’ampia delegittimazione della carica presso gli altri sunniti. Quanto alla Persia e all’intero mondo dello sciismo, il problema non si pose nemmeno, non avendo essi riconosciuto alcun califfo fin dai tempi di ʿAlī. I musulmani avevano perso la loro guida suprema, ma non avvertivano l’esigenza di averne una nuova. Ancora oggi ritorno di una figura politico-religiosa unificante, quantomeno dell’universo sunnita, non è visto come una necessità impellente dai musulmani e gli stessi ambienti conservatori ed ultraconservatori, a parte il terroristico ISIS, non sembrano interessati a rivendicare la carica, bastando, nelle tradizioni più letteraliste, il solo Corano a fare da guida. Gli stessi requisiti necessari alla dignità califfale, vaghi e mai realmente formalizzati, renderebbero molto ardua la scelta di un nuovo califfo dell’Islam. Tra coloro che potrebbero aspirare a tale dignità, oggi, vi sono i sovrani di Giordania e Marocco con i loro figli, tutti discendenti, secondo la tradizione, del profeta Maometto, così come i membri maschi della deposta famiglia reale egiziana, i quali però non avrebbero alcun potere politico, essendo l’Egitto una repubblica, per adempiere alla loro missione. Controversa è la posizione della casa reale dell’Arabia Saudita, la quale in passato ha cercato di aggiungere la dignità califfale alla carica di “Custode delle Città Sante”, mentre ormai impossibile da riproporre sarebbe l’ascesa a califfo dell’attuale pretendente al deposto trono ottomano, il principe Harun Osmanoğlu, pronipote di Abdul Hamid II, terzultimo sultano dell’Impero Ottomano.
L’assenza, oggi di un’autorità di così alto prestigio morale e politico in seno all’Islam penalizza i musulmani molto più di quanto questi non potessero immaginare quando decisero, con la loro inazione, di non nominare un nuovo Califfo. Nonostante l’emersione di alcune realtà di riconosciuto prestigio, come il rettorato dell’antica Università Al-Azhar del Cairo, o come singoli regnanti illuminati del Medio Oriente, il dialogo tra Occidente ed Islam trova nella mancanza di un interlocutore unico uno dei punti più difficili da aggirare. La mancanza di una figura suprema in grado, perlomeno nel mondo sunnita, di stabilire i confini tra “lecito e illecito” al riparo dalle interpretazioni più faziose del Corano ha avuto un ruolo fondamentale proprio nell’esplosione di quel fenomeno che oggi chiamiamo jihadismo e che ha appena preso il potere nella lontana Kabul. L’ascesa dell’influenza politica delle dinastie wahabite della penisola arabica, in particolare, ha evidenziato il vulnus creato dalla mancanza di una figura che goda di un prestigio morale autonomo dalla forza economica derivante esclusivamente dal petrolio e dagli affari, legando sempre di più l’Islam ai disegni economici ed egemonici di singole dinastie wahabite più che al Corano e alla tradizione sunnita in sé. La sfida di trovare una convivenza pacifica con l’Occidente da parte dell’Islam sunnita passerà per forza di cose da una chiarificazione gerarchica al suo interno, laddove sarà necessario porre fine all’anarchia della pluralità di voci discordanti spesso sostenute solo dai dollari del petrolio. Se il sunnismo riuscirà a dotarsi di una struttura efficiente e centralizzata, magari sul modello dello Sciismo duodecimano incentrato sul regime iraniano, o se invece rimarrà un coacervo di scuole l’una in guerra contro l’altra sarà una delle partite più interessanti che si giocheranno in Medio Oriente (e non solo), una delle poche, forse, a contenere un po’ di spiritualità.
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