Estemporanee: per un ambientalismo non progressista

Di fronte alla quotidianità dell’ambientalismo mainstream, ho maturato la convinzione che, oggi come ieri, il suo più grande limite risieda nell’ incapacità di criticare ciò che chiamiamo progressismo e razionalismo. Questa incapacità di abbandonare il mito del progresso comporta anche quella di abbandonare lo scientismo e lo statalismo, e così nella ricerca di possibili soluzioni ci si rivolge solo alla scienza e allo Stato.
La razionalità scientifica è stata funzionale al dominio dell’uomo sulla natura (e poi al dominio dell’uomo sull’uomo, ma questo è un discorso che non affronteremo adesso) e alla sua riduzione a un insieme di materie prime da sfruttare e manipolare tecnicamente.
Di fronte a ciò è paradossale che gli attuali movimenti ambientalisti invochino proprio l’aiuto degli scienziati e dei tecnici per “salvare il pianeta”. Dovremmo inoltre chiederci se la Terra abbia davvero bisogno di “essere salvata”. Come può essere salvata dagli stessi che l’hanno violata ripetutamente?
E se invece di fare qualcosa per salvare il pianeta iniziassimo a fare di meno, riscoprendo i nostri limiti e ritirandoci silenziosamente al di sotto di essi? Si cerca di rimediare alla degenerazione del razionalismo con più razionalismo: è l’atteggiamento tipico di quell’ambientalismo (il genere di ambientalismo che ora va di moda) che vorrebbe fare fronte alla crisi ecologica scatenata dal dispiegarsi della razionalità tecno-scientifica facendo affidamento proprio sulla tecnologia e sulla scienza.
Il problema affonda le sue radici più in profondità di quanto si possa pensare e rende manifesta l’incapacità di pervenire a una riconciliazione autentica del Sé con la natura, riconciliazione che sarà possibile solo quando ci ricorderemo che anche l’uomo fa parte della totalità naturale. Si tratta di smettere di vedere la natura come oggetto a sé, da noi separato, e di riscoprire la naturalità che è in noi. Il dominio dell’uomo sulla natura è passato attraverso l’auto-dominio e solo liberando il Sé potremo liberare anche la natura.
L’ambientalismo che si limita a vedere la natura come un insieme di risorse da ottimizzare tecnicamente nel modo più sostenibile perpetua quell’atteggiamento intellettuale di distacco e oggettivazione della natura che ha portato al suo dominio e sfruttamento. Non possiamo affrontare la crisi ecologica unicamente dal punto di vista tecnico: serve una nuova disposizione dell’animo. Si deve rifondare un legame spirituale con la natura.
Se volessimo dare vita a un ambientalismo che non sposi solamente un approccio scientifico, dovremmo anche smettere di parlare soltanto di “crisi ecologica”, espressione che contribuisce a ridurre la natura a materia di studio scientifico.
La natura non è solo questo: è anche e soprattutto una dimensione dell’Essere. Dobbiamo riavvicinarci all’ambiente non solo tramite il pensiero calcolante (quello che ci porta a conteggiare le emissioni di CO2), ma anche con lo Spirito. Per prima cosa dobbiamo capire che avere a cuore la tutela della natura non significa preoccuparsi esclusivamente del cambiamento climatico e di come questo potrebbe impattare sulla nostra vita.
Una delle cose che più dovrebbe angosciarci è la perdita di biodiversità e di habitat naturali. Volendo abbandonare questa terminologia scientifica, direi che mi rattrista enormemente la distruzione progressiva delle terre selvagge e degli animali che le abitano. Si presti attenzione: non mi riferisco solo alla distruzione materiale. Parlo di quella enorme ricchezza che rischiamo di perdere in quanto a immaginario.
La natura è da sempre fonte di ispirazione per poeti, artisti, filosofi e per l’uomo in generale. Le terre selvagge rappresentano spazi vergini ancora caotici da cui trarre ispirazione. La presenza fisica di una situazione di disordine ci consente di mantenere in vita anche l’idea di caos. Solo conservando il caos dentro di noi possiamo ancora creare mondi nuovi e alternativi.
Quando Nietzsche in Così parlò Zarathustra scrive che “bisogna avere ancora il caos in sé per generare una stella danzante” (citazione tanto abusata quanto piena di significato) dice una grande verità. La natura primigenia rappresenta questo: la dimostrazione che non tutto è dato, ordinato e stabilizzato. La dimostrazione che ancora esiste un’alternativa e che possiamo continuare a sognare. Un’alternativa a cosa? Al mondo così come lo conosciamo, allo Stato, al razionalismo.
La distruzione della natura non rappresenta soltanto un problema tecno-scientifico o economico: è anche un problema filosofico, politico ed esistenziale.
La perdita di spazi incontaminati rappresenta la perdita di quel materiale grezzo che ci consente di immaginare mondi altri. In Così parlo Zarathustra – Del nuovo idolo Zarathustra immagina lo spazio al di fuori dello Stato e afferma: ”La Terra è ancora libera per i magnanimi. Ancora sono vuote molte sedi per i solitari e per i solitari a due, intorno alle quali spira il profumo di mari silenziosi. Una libera vita è ancora aperta ai magnanimi. In verità, chi poco possiede viene tanto meno posseduto: sia lodata la piccola povertà!”
Vogliamo davvero che quelle sedi vengano tutte occupate?
Distruggendo la natura l’uomo non rischia soltanto di perdere un immenso potenziale immaginifico e creativo: rischia anche di perdere sé stesso (forse l’uomo si è già perso e il perdersi è necessario per poi ritrovarsi in un modo veramente autentico). L’uomo vuole davvero rimanere solo sulla Terra? Come farà a riconoscere sé stesso senza l’incontro con l’altro da sé, l’incontro con gli esseri non umani, ovvero gli animali? L’uomo potrà disalienarsi ritrovando sé stesso e la propria autenticità, o forse riconoscersi in modo compiuto per la prima volta, solo nella relazione con gli animali e il mondo naturale. Non dimentichiamo la maledizione caduta sul vecchio marinaio protagonista della ballata The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge. L’uomo, colpevole di avere ucciso l’albatro, fa cadere sulla sua nave una terribile maledizione. Morte e Vita-nella-morte giocano a dadi le vite dei marinai. La Morte vince i compagni del vecchio marinaio mentre Vita-nella-Morte vince il Marinaio. L’uomo è l’unico a sopravvivere ma il suo non è un destino facile: il ricordo dei compagni morti lo perseguita.
L’uomo rischia di trovarsi nella stessa condizione del vecchio marinaio: sopravvissuto ma solo e in un mondo desolato. Vogliamo davvero questa sorte?
In The Rime of the Ancient Mariner la maledizione alla fine viene spezzata, noi riusciremo a spezzare la nostra?