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Due secoli e mezzo di Hegel. Una prospettiva nichilista

Due secoli e mezzo di Hegel. Una prospettiva nichilista

Sono passati due secoli e mezzo, oltre che una manciata di giorni, da quando Georg Wilhelm Friedrich Hegel è venuto al mondo, in quel di Stoccarda, nel 1770. Le opere che questo gigante della filosofia lascerà dietro di sé avranno una durata ed una popolarità ben più lunga rispetto alla vita terrena del filosofo, e andranno a permeare attivamente, ma anche negativamente, sotto forma di reazione ostile da parte degli anti-hegeliani, tutta la tradizione filosofica successiva. Vi è, in realtà, molto di Hegel in ogni Stato moderno, e ben si comprende come mai i distruttori dell’idea di Stato sentano il bisogno di attaccare come primo e più importante bersaglio il pensatore tedesco.

Al contempo, una certa lettura stereotipata e marxisteggiante ha finito col tempo quasi per legittimare una lettura errata, socialista, di Hegel, che ne ha completamente adulterato il messaggio di fondo; un messaggio che rimane apertamente ed orgogliosamente conservatore, a patto che con questo termine si intenda la difesa dello stato monarchico e costituzionale della Prussia militarista, e non le democrazie liberalconservatrici di tradizione anglosassone. Hegel viene principalmente inquadrato come il padre dei totalitarismi del Novecento, a cominciare dai vari fascismi fino a giungere al comunismo sovietico e dei suoi paesi satelliti. Ciò è vero solo in maniera parziale, e lo è soprattutto in merito a ciò che furono le esperienze del regime italiano e di quello sovietico. L’esperienza politica del nazionalsocialismo fu in realtà un distanziamento dalla tradizione politica hegeliana che pure permeava ancora la Germania di Weimar. Se infatti Hegel concepiva la vita dello Stato, così come il procedere della realtà tutta e della storia, come un movimento dialettico di figure dell’autocoscienza, i nazionalsocialisti si sentivano molto più a loro agio nel ruolo di guardiani del nietzscheano eterno ritorno dell’uguale. Nella Weltanschauung nazionalsocialista è certamente vero che, come in Hegel, la vita ed il progresso si esplicitano nella forma della lotta, ma è altrettanto vero che è assente una qualsivoglia teleologia del divenire; al contrario, l’orizzonte nichilistico, la nietzscheana “mancanza di scopo” è pienamente accettata dai nazionalsocialisti, e l’orizzonte ultimo della politica si esplicita nel fine ultimo di conservazione ed al contempo potenziamento dei propri valori autoposti. Il crinale, sottile ma scosceso, che intercorre tra l’hegeliana Aufhebung e la nietzscheana Aus- und hinausblicken (tradotto da Heidegger in “guardare mirando a e mirando in”) costituisce lo spartiacque che separa l’autoritarismo italiano e sovietico da quello tedesco. Nella prospettiva nazionalsocialista, che ha pienamente accettato la lezione materialista del nichilismo e dell’immanentismo di Spinoza, sono i centri di forza a porre l’esordio ed il ritmo di ogni divenire, e non il collidere automatico e razionale di opposti che si scontrano e si sintetizzano in un’ottica dialettica. Lo stesso termine “prospettiva”, adoperato da Nietzsche ma preso in prestito da Leibniz e da Kant, riposa su fondamenti idealistici e immanenti che il nazionalsocialismo, malgrado le ambigue definizioni a proposito dei cristianesimi positivi, non ha mai rinnegato. Il riferimento all’idealismo non è casuale, e riconduce all’unica parentela tra Hegel e il totalitarismo nazionalsocialista di cui gli si imputa la paternità. L’immanentismo radicale di Hegel nel quale le idee, similmente agli Ur-phänomen goethiani, producono l’esistente, costituisce lo stesso piano orizzontale nel quale entrano in conflitto e lottano per la supremazia i centri di forza di Nietzsche. Ma tutto ciò costituisce davvero un elemento insufficiente per ascrivere ad Hegel una qualche responsabilità per quanto concerne la nascita del nazionalsocialismo, che è a sua volta l’argomento principe che viene utilizzato per demolire la sua filosofia.

Hegel viene quindi additato come una sorta di progenitore dell’autoritarismo e del totalitarismo “patriarcale”, e l’attacco postmoderno alla concezione arborescente altro non è che l’immagine allegorica dell’attacco all’idea della dialettica che muta in senso progressivo (dal pensiero alla materia secondo la visione ortodossa hegeliana o dalla materia al pensiero, secondo la prassi di Marx è, per ora, indifferente). La progressività qui è chiaramente in contrapposizione con il progressismo, laddove quest’ultimo si esplicita come costante liberazione da ogni vincolo mentre la progressività (o la dialettica, rimanendo fedeli al lessico hegeliano), costituisce l’incedere dell’autocoscienza lungo il sentiero della storia. La squalifica che cade tanto sui fascismi quanto sul socialismo, passa appunto per l’intersezione delle genealogie politiche nel concetto idealistico di dialettica. Che sia il pensiero a produrre l’essere, come sostenuto da Hegel e dalla destra hegeliana, o che siano invece la realtà materiale ed il momento egemonico della produzione (übergreifende Moment) a produrre il pensiero tramite la fuga da diversi punti di partenza (Ausgangpunkte) come sostenuto da Marx è irrilevante ai fini della critica libertaria e neoliberale postmoderna. L’attacco a Marx o alle sorgenti filosofiche del fascismo ortodosso è ritenuto inutile alla luce della prospettiva politica neoliberale, poiché colpendo Hegel si vanno a minare le fondamenta di entrambe le teorie politiche (il nazionalsocialismo invece, benché a parole sia continuamente tirato per la giacca, rimane filosoficamente fuori dalla contesa, se non nei suoi aspetti sintomatici, quali ad esempio razzismo e antisemitismo, problema questo già ravvisato da Habermas, di cui abbiamo già detto).

Hegel dunque, in una visione che è al contempo postmoderna e marxisteggiante (laddove l’eredità marxista è costituita dal marxismo occidentale della Scuola di Francoforte), viene inquadrato come momento egemonico sul quale agire per minare alla base l’evoluzione in sovrastruttura autoritaria e “patriarcale” sia dello Stato sia degli individui intesi come potenziali personalità autoritarie. A essere criticata dal neoliberalismo non è dunque né la statolatria hegeliana né tantomeno il presunto comunitarismo inteso nell’accezione di Costanzo Preve, bensì l’idea stessa di un’evoluzione dialettica, non importa in quale direzione, che presupponga anche solo la possibilità che la storia evada dal semplice ciclo di riproduzione e scambio delle merci, mettendo in discussione la natura provvisoria dell’attuale assetto capitalistico e neoliberale. L’esistenza di una teleologia, ancorchè avvolta nella evanescente definizione di Spirito Assoluto, è già una motivazione sufficiente per pronunciare la condanna di Hegel.

La stessa visione di Hegel come patrono dello Stato, amata della destra sovranista, è incompatibile con quella dell’Hegel comunitarista, preferita invece dal lato sinistro del sovranismo. Entrando in ambiti meno teoretici è qui visibile uno sfasamento tra i due termini, che non sempre è giustificato dal velo bianco dell’innocenza. Se pure è vero che lo Stato è costituito dai suoi sub-organi della società civile (sistema dei bisogni, Giustizia, corporazioni etc.), è pur vero che Hegel non si riferisce a schemi che esulino dal suo rigoroso organicismo dirigista. La figura socratica del libero cittadino che funge da coscienza critica è totalmente assente, anzi, combattuta, nel pensiero di Hegel; Costanzo Preve è costretto a riconoscerlo laddove in “Elogio del Comunitarismo” entra in contrasto con Hegel proprio a proposito della figura di Socrate. L’accusa di individualismo, rivolta da Hegel (Nietzsche preferirà quella di razionalismo) a Socrate non è condivisa da Preve, che è costretto a rimarcare il ruolo “patriottico” incarnato dalla coscienza critica di Socrate. Lungi dall’essere però un errore di Hegel, l’accusa del filosofo tedesco è perfettamente coerente con il suo stesso sistema filosofico. Non c’è posto, nel sistema di pensiero hegeliano, per le prassi dialogiche arendtiane e democratiche, e se pure è vero che lo Stato hegeliano è comunque uno stato di diritto, è vero al contempo che esso funziona mosso dalle leggi meccaniche della dialettica, e non tramite la gestione centralizzata di un intelletto collettivo incaricato di mediare tra le diverse proposte politiche avanzate dai cittadini. Ironicamente, Preve cade precisamente nella trappola del liberalismo che sostiene di voler combattere, mentre Hegel si pone, con Anito e Meleto, tra difensori dei buoni costumi aviti degli ateniesi. In Hegel è la sfera del politico a stabilizzare e regolamentare la convivenza tra i cittadini, e non l’opposto, come invece è nel liberalismo, dove un compromesso tra i cittadini promuove quasi sempre la soluzione più moderata alle tensioni della sfera politica. È lo Stato, in Hegel, il capo-voga della galea sociale, e ne decide consapevolmente destinazioni e finalità; la figura socratica del citoyen è completamente assente, mentre l’ingranaggio fondamentale dell’impalcatura politica hegeliana è lo Staatsdiener (parola che indica al contempo sudditanza e prestazione di un servizio), che si opera e si esprime nello Stato animato dal Volksgeist (lo spirito del popolo). È questa concezione organicistica, espressa nei “Lineamenti per una filosofia del diritto”(1821), a inquadrare l’atteggiamento socratico all’idea liberal-individualistica che non genera uno Stato ma solo una generica multitudo.

Tuttavia, il determinismo storicistico di Hegel non può far sorridere nemmeno la destra sovranista che a lui, spesso con poca coscienza di causa, si appella. Poiché, pur essendo vero che Hegel si appella ad un Volksgeist (chi ne stabilisce i confini? Come vengono delimitati? Forse su presupposti immanentistici e biologici?), è allo stesso tempo vero che la vita come lotta tra sintesi e antitesi, pone la politica su di una prospettiva completamente nichilistica. In questo scenario, non è affatto significativo che la teleologia ed i finalismi emergano alla fine, assieme alla nottola di Minerva: nel momento della contesa i contendenti (gli stati nazionali e l’Unione Europea, oppure gli stati nazionali in lotta tra loro come Grecia e Turchia, oppure gli stati nazionali ed i mercati etc.), si affrontano in una lotta per la vita e per la morte il cui fine è inconoscibile in quella determinata fase storica; esso può essere supposto, o tradotto narcoticamente in miti mobilitanti, ma non si sfugge dalla gabbia d’acciaio della lotta tra esistenza e inesistenza e la lotta è tanto più spietata quanto più Hegel ci ricorda, nei “Lineamenti di filosofia del diritto“, che tra gli Stati non ci sono pretori.

Qui, secondo una felice intuizione di Karl Löwith, Hegel e Darwin marciano insieme, e l’imperscrutabile tribunale del Weltgericht dispensa vita o morte secondo l’unica dicotomia di esistenza e inesistenza. Stati e popoli esistono o periscono, e l’esistenza è il certificato di assoluzione di fronte alla storia per chi ha efficacemente combattuto, mentre l’inesistenza e la morte, sono la prospettiva di chi non è degno di continuare a recitare una parte nell’autosvolgimento del Geist. Questa visione nichilistica o, usando un’espressione previana, monomondana, rappresenta da sempre un lato abbastanza inesplorato del pensiero di Hegel, che nella Fenomenologia dello Spirito mette alla berlina chi oppone la cosiddetta legge del cuore alla realtà. La legge del cuore, ossia le aspirazioni incapaci di confrontarsi con ciò che è dato, sarebbero

qualcosa che ha lo statuto di mera intenzione il quale, diversamente dall’ordinamento costituito, non ha saputo sostenere la luce del giorno, e che anzi, non appena viene esposto a quella luce, sprofonda.

Si tratta di un passo di una grande valenza conservatrice, la critica del quale non era sfuggita a Marx, che attaccò duramente Hegel, sostenendo come questa posizione si ripiegasse in una mera accettazione passiva della realtà sociale del suo tempo, ovvero la monarchia costituzionale prussiana ed il correlato edificio sovrastrutturale capitalistico, militare e religioso. Ma Hegel, lo abbiamo rimarcato all’inizio, non è un conservatore nel senso anglosassone del termine, e la distanza da un Edmund Burke così come da altri autori tories anglosassoni non potrebbe essere più marcata. È ad Hegel che sembra alludere Burke quando, mettendo in guardia da eventuali deviazioni autoritarie da parte dell’aristocrazia, accenna ai “riformatori ambiziosi e ingegnosi” (definizioni che sembrano presagire le accuse di costruttivismo della Scuola Austriaca); nella seconda delle “Letters on a Regicide Peace”, per Edmund Burke, nella mentalità di questi uomini di Stato

l’individualità è lasciata fuori dalla loro idea di governo. Lo Stato è tutto nell’insieme. Ogni cosa è legata alla produzione della forza; successivamente ogni cosa è incaricata al suo utilizzo. È militare nel suo principio, nelle sue massime, nel suo spirito e in tutti i suoi movimenti.”

L’allusione è, in questo caso, ai giacobini egemoni nella sponda sud della Manica durante il periodo del Terrore rivoluzionario, ma l’anticipazione allarmata dell’ideale di Mobilmachung prussiana così come a molte dittature novecentesche “hegeliane” è abbastanza evidente, come già commentato da Russel Kirk ne “Il pensiero conservatore”.  Kirk paragona il passo anche ad una sinistra anticipazione del sovietismo, in particolare, l’idea di “produzione della forza” ricorda molto da vicino, nonostante il sapore nietzscheano dell’espressione, la produzione comune (gemeinschaftliche Produktion) e l’appropriazione della natura (Aneignung), teorizzate da Marx nei Grundrisse. Ma come ricordato in precedenza, l’ascrizione della medesima origine hegeliana da parte della critica liberalconservatrice, nei confronti di comunismo e fascismi (che peraltro gioca di sponda con l’opposizione speculare al neoliberalismo, ossia la cosiddetta Nouvelle Droite), altro non è che un’astuzia escogitata dalla medesima teoria politica liberale, che torna comoda ai suoi sostenitori quanto ai suoi detrattori. I primi possono giocare la carta dell’anti-totalitarismo popperiano, i secondi acquisirebbero un padre nobile per i loro disegni rivoluzionari. Ma l’essenza conservatrice di Hegel era ben nota tanto a Marx quanto a Feuerbach, e solo una lettura disattenta del filosofo di Stoccarda potrebbe, assieme alla ben nota malafede, interpretare Hegel in ottica socialista. Il malinteso, al di là delle tesi più o meno interessate dei vari interpreti del pensiero di Hegel nel mondo della cultura accademica e, ultimamente, mediatica, nasce dalla sinergia tra un’interpretazione radicalmente non hegeliana della Fenomenologia dello spirito (in particolare delle sue leggi dialettiche) e l’espunzione del momento dialettico che contrappone servo e padrone dal suo contesto originario all’interno della Fenomenologia. Entrambi i fatti, come già detto, non sono imputabili a Marx, che fu invece chiarissimo nel prendere la distanza dai contenuti hegeliani, pur salvandone le prassi ed il concetto di ragione che si invera e sviluppa nella storia.

Nei Grundrisse, Marx riconosce ad Hegel la validità pratica del metodo di indagine espresso nella sua Scienza della Logica, un metodo che è, per Marx, “scientificamente corretto” (wissenschaftlich richtige Methode) e che consiste nel “salire dall’astratto al concreto” (vom Abstrakten zum Concreten aufzusteigen). Il substrato idealistico qui sopravvive, ma si tratta della mera prospettiva dello scienziato e del suo metodo per conoscere la realtà. Come essa si sviluppi e si autoproduca è invece un argomento che divide Marx da Hegel. Come già detto, il teorico del comunismo contestava il presupposto hegeliano del “reale come risultato del pensiero” sostenendo invece la tesi inversa. Tale accusa è ribadita con ancora più veemenza nell’[Introduzione] del 1857, allorchè l’accusa ad Hegel di concepire “un mondo pensato (leggasi immaginario) come sola realtà” suonava quasi irrisoria nei confronti del suo maestro. Sono le categorie economiche, per Marx, a esistere in forma astratta dopo essere partite da elementi materiali e tangibili. I contesti economici sono attributi, determinazioni di qualcosa che esiste materialmente (Existenzbestimmungen), ed ogni tentativo di sostenere, come Hegel, il processo inverso, si qualifica come reazionario, conservatore e, in buona sostanza, nemico. La figura hegeliana della nottola di Minerva, secondo la quale solo il presente spiega il passato è, vale la pena ricordarlo ancora una volta, condivisa anche da Marx, laddove nei Grundrisse troviamo il felice esempio che illustra come

l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia, e ciò che nelle specie animali inferiori accenna a qualcosa di superiore può essere compreso solo se la forma superiore è già conosciuta”.

Ma questo è tutto. Per il resto, fu sufficiente applicare le categorie hegeliane, sradicate di peso dal loro contesto, agli afflati libertari e socialisti delle masse operaie e la mutazione della “sinistra hegeliana” fu compiuta, sostituendo facilmente all’idea di ragione quelle che erano le aspirazioni di classe del proletariato europeo. La stessa dialettica servo-padrone, che oltre ad essere una metafora è anche descrittiva di una precisa fase del mondo antico, ovvero la caduta dell’Impero Romano e la fine della schiavitù in Europa, è stata invece spostata di peso in quella che era l’attualità storica di Marx, e poi via via collocata sempre più avanti mano a mano che l’emancipazione dell’umanità in prospettiva comunista finiva per allontanarsi in un sempre più utopistico futuro. È facile immaginare quindi come, alla luce della realtà, la lettura attenta di Hegel deluda al contempo entrambe le fronde dell’arbusto sovranista.

Al contrario, il filosofo württemberghese lascia, nella sua essenza nichilistica già esplicitata da Löwith, un discreto spazio di manovra ad un’interpretazione che sia al contempo prometeistica e nietzscheana, e che interpreti in una prospettiva al contempo materialistica e romantica il concetto di Volksgeist in senso herderiano, uno schema che abbiamo già accennato in “Nietzsche e noi”. In buona sostanza, potrebbe sembrare che la stessa vittoria dei paradigmi nietzscheani e postmoderni su quelli realistici ed aristotelico-tomisti impongano, dopo la sentenza di morte emessa dal Weltgericht, un ripensamento della filosofia di Hegel alla luce dei postmodernismi. Ma se fosse invece vero l’esatto opposto? Se fosse invece il supremo stadio del nichilismo estatico-attivo un momento stesso della dialettica storica svolgentesi secondo le leggi espresse da Hegel? Si tratta di una preoccupazione già fatta emergere in ambito postmoderno, in particolare dal vate del postmodernismo, quel Michel Foucault, il quale in una lezione al Collège de France, constatò che

sfuggire realmente a Hegel presuppone che si valuti esattamente quanto costi staccarsi da lui; presuppone che si sappia sino a dove Hegel, insidiosamente forse, si sia accostato a noi; presuppone che si sappia, in ciò che ci permette di pensare contro Hegel, quel che è ancora hegeliano; e di misurare in cosa il nostro ricorso contro di lui sia ancora, forse, un’astuzia ch’egli ci oppone e al termine della quale ci attende, immobile altrove

riprendendo un’espressione nietzscheana, qui Foucault sembra quasi subodorare uno status di mancata consapevolezza, qualcosa di simile a quello che Nietzsche ne “La nascita della tragedia” descrive come un approccio totalmente incosciente ad un ruolo attoriale

è pur vero che la nostra consapevolezza di questo nostro significato non è diversa da quella che dei guerrieri dipinti sulla tela avrebbero della battaglia che vi è rappresentata”.

Una concezione che peraltro, ironicamente, si accorderebbe perfettamente all’irrazionalismo di Foucault. Abbiamo visto dunque come un’interpretazione nichilistica di Hegel sia qualcosa di assolutamente plausibile, e soprattutto possibile, se in tempi non sospetti riusciva a sollevare i dubbi inquieti di Foucault sul ruolo drammatico del suo postmodernismo nella storia. Del resto, appartiene proprio ad Hegel l’assioma “Il vero è l’intero” (das Wahre ist das Ganze), che conferisce il premio della verità ai vincitori delle dispute nel piano anarchico del Weltgericht, nel quale, secondo una pregnante affermazione di Alexandre Kojève, “il peccato può essere perdonato dal successo” poiché “il successo è una nuova realtà che esiste”.

In questa prospettiva, l’orrore postmoderno è pienamente e nichilisticamente innocente nella sua esistenza e arroganza, ma lo sarà anche l’altrettanto nichilistica forza antitetica che andrà a sublimarlo. In quest’ottica, le potenzialità del nichilismo sono davvero insospettate.



“Hegel Haus” by Metaphox is licensed under CC BY 2.0

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