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Da Boyle a Spinoza, il vago confine tra scienza e magia

Da Boyle a Spinoza, il vago confine tra scienza e magia

In morte del giornalista e divulgatore scientifico Piero Angela, ampio spazio è stato dedicato allo scetticismo, in merito ai fenomeni paranormali e alle idee genericamente definite “antiscientifiche”, che fu tipico del personaggio. Tralasciando l’opportunità o meno di erigere a paradigma della filosofia della scienza e dell’epistemologia quello che era in realtà un (ottimo) giornalista e divulgatore, e dunque non un filosofo né un epistemologo, si potrebbero aprire alcune riflessioni, credo meritevoli di approfondimento, sul rapporto e soprattutto sui confini tra normale e “paranormale”, tra scienza e “antiscienza”. Il tema è attuale e scottante e la dipartita di un noto fustigatore dei critici della ragion tecnica non poteva che trasformarsi nell’ennesima occasione per dei mediaticissimi e molto social peana di stato che, purtroppo, sovente hanno preso la forma di comizi politici tout court.

Ma cerchiamo di attenerci, per una volta, alla narrativa del mainstream culturale e mediatico. Consideriamo cioè, per un attimo, il defunto Piero Angela come una voce realmente competente ed esperta nell’ambito della filosofia della Scienza. All’obiezione che ci ricordasse che in realtà egli non fosse niente di tutto ciò e che non fosse nemmeno laureato (né in filosofia né in altro ambito) potremo sempre rispondere che in ogni caso la valenza sociale e mediatica del personaggio, che nei fatti è considerato come un’autorità dalla gran parte dei nostri concittadini, ci autorizza comunque a questa piccola licenza essendo, in ogni caso, le conseguenze di questo equivoco, come di altri molto simili, ben verificabili attorno a noi nella vita di ogni giorno.

In una recente intervista alla trasmissione “Che tempo che fa”, Angela aveva dichiarato come il suo desiderio fosse “arrivare a duecento anni, ma su una motocicletta e con una bionda dietro al sellino”. In questa dichiarazione, che ci restituisce tutta l’umanità di Angela, vi è anche, forse in maniera inaspettata, tutta la scientificità dello stesso. Lunga vita, giovinezza, piaceri, sono risaputamente gli eterni desideri dell’uomo. Se David Deutsch ne “La trama della realtà” ha correttamente descritto la scienza non come un paradigma assoluto ma come un sistema di problem solving, allora non c’è dubbio sul fatto che, per l’apostolo della Scienza Angela, così come per tutti gli esseri umani, i problemi da risolvere siano sempre i medesimi: la brevità della vita, l’invecchiamento e la soddisfazione del freudiano principio di piacere, possibilmente senza troppe frizioni con il principio di realtà. Se così stanno le cose, i desideri dello scienziato sono tutto sommato gli stessi dell’uomo comune, e questo da un lato restituisce umanità alla figura dell’uomo di Scienza ma dall’altro lo spoglia di quell’aura di alterità rispetto alle basse questioni umane che egli ha, ormai da due secoli, strappato alla figura del sacerdote. Torna alla mente, a tal proposito, un eccezionale documento lasciatoci da Robert Boyle, chimico, fisico e filosofo e più in generale “scienziato”, sebbene all’epoca il termine in questione non esistesse. Il documento, in realtà una semplice lista, non è che un elenco di quelli che, secondo Boyle, erano i traguardi più importanti che le scienze avrebbero dovuto raggiungere nel futuro.

Rileggere oggi questo poco conosciuto documento, redatto in un anno imprecisato del penultimo decennio del Seicento, ci regala infiniti spunti di riflessione epistemologica che ben possono ricollegarsi all’affermazione, solo in apparenza banale, di Angela. I primi due traguardi che, secondo Boyle, la Scienza avrebbe dovuto tagliare, corrispondono quasi alla perfezione ai desideri di Piero Angela, e sono rispettivamente il prolungamento della vita (“the prolongation of life“) e il recupero della giovinezza “o almeno dei suoi segni, come denti nuovi e capelli colorati come in gioventù (the recovery of Youth, or at least some of the marks of it, as new teeth, new hair colour’d as in youth)”. La corrispondenza è pressoché totale, ma vale la pena continuare a leggere la lista, che ci illumina molto su quali fossero i propositi della scienza ai suoi albori. Troviamo, in questa lunga lista di cose da fare, un sempiterno desiderio dell’uomo, ovvero il padroneggiare l’arte del volo, seguono poi la capacità di stare a lungo sott’acqua, la capacità di curare ferite a distanza, la capacità di eseguire trapianti, la capacità di assumere forme gigantesche, l’accelerazione della crescita delle piante dal seme, la trasmutazione dei metalli, la capacità di trasformare animali, minerali e piante in altre cose, l’invenzione di potenti droghe in grado non solo di stimolare l’immaginazione e placare il dolore ma anche di incrementare la memoria, la capacità di veglia e le prestazioni fisiche. Seguono, poi, la capacità di fabbricare lumi perpetui e nuovi tipi di materiali come il vetro malleabile o determinate tipologie di vernici. L’elenco potrebbe continuare ma il materiale a disposizione è già di per sé sufficiente per alcune riflessioni.



Stupisce, in primo luogo, quanti di questi obbiettivi (e altri che non sono stati qui menzionati) la Scienza sia effettivamente riuscita a conseguire ma stupisce, ancora di più, l’utopismo, per non dire l’onirismo magico del quale questo documento è intriso. Se cose come i trapianti o l’invenzione di determinati materiali ci sembrano obbiettivi perfettamente scientifici, almeno secondo i paradigmi moderni, altri punti della lista di Boyle potrebbero tranquillamente derubricati a quella che oggi sarebbe definita, con spregio, volgare magia. Poteri come quello di assumere dimensioni gigantesche o di trasformare un animale in una pietra sono senza dubbio più al loro posto, almeno per ora, in un libro di fiabe che non negli appunti di uno scienziato. Eppure, Boyle era tutt’altro che un ciarlatano, rappresentava anzi la cuspide della cultura del suo tempo; fondatore della Royal Society, scopritore della legge fisica che ancora oggi porta il suo nome e filosofo in grado di disquisire alla pari con personalità del calibro di Thomas Hobbes, Boyle era tutt’altro che un utopista ingenuo e rimane ancor oggi una figura imprescindibile della rivoluzione scientifica. Nonostante tutto ciò la sua to-do list suona ancora oggi alle nostre orecchie come indiscutibilmente magica, simile, per molti aspetti, al pensierino di uno scolaro elementare.

Se a tutt’oggi, nonostante il conseguimento di molti dei punti della lista, gli obbiettivi di Boyle ci sembrano ancora i sogni di un mago, non faticheremo di certo a immaginare quanto questo effetto dovesse essere più forte all’epoca in cui lo scienziato era vivente. Ancora alla fine dell’Ottocento, chiunque avesse sostenuto di poter rendere possibili alcuni dei desideri di Boyle sarebbe stato etichettato come un ciarlatano. La lista di Boyle è dunque un luogo centrale tanto per la storia della Scienza quanto per la filosofia di essa, in quanto documenta e testimonia dell’esistenza di un luogo mitico e favoleggiato: il confine tra Scienza e magia. Se definiamo la magia come la capacità di travalicare la normalità, ovvero di compiere atti ed operazioni che nella normalità non accadrebbero o non sarebbero possibili, allora è certo che il confine tra Scienza e magia non è netto ma decisamente poroso, in quanto il progresso ci ha dimostrato di aver ampiamente e più volte superato questo confine dai tempi di Boyle ad oggi, e nulla vieta di pensare che ciò possa accadere di nuovo.

Per l’Enciclopedia Treccani magia è la “pratica e forma di sapere esoterico e iniziatico che si presenta come capace di controllare le forze della natura”. Questa scarna definizione, come è facilmente riscontrabile, non ci dice molto sul presunto fossato che separerebbe scienza e magia. Quella di controllare le forze della natura è da sempre, infatti, la grande missione della scienza, e anche sul carattere esoterico ed iniziatico delle scienze più complesse si potrebbe disquisire a lungo. Come vediamo, ad un esame più attento il confine ci appare sempre meno delineato. Come infatti ben sanno accademici e studenti, la Scienza moderna può a sua volta essere esoterica ed iniziatica. Lo stesso Piero Angela, nella medesima già citata intervista aveva lodato la prassi scientifica della condivisione delle conoscenze, quando in realtà sappiamo che la condivisione delle conoscenze e delle nozioni scientifiche non è affatto libera e che, a latere da eventuali tutele commerciali e di brand per quanto riguarda le scoperte, le nozioni sono giocoforza condivise solo tra ristrette élite in grado di decifrarle e comprenderle, esattamente come da miglior tradizione magistica. È dunque evidente che, se esiste un confine tra Scienza e magia, esso non è situato nella dicotomia usuale/inusuale, ma altrove. Se, per dirla con Deutsch, la Scienza è problem solving e se, come la lista di Boyle e i sogni di Angela ci dimostrano, i desideri dello scienziato e quelli del malinconico dottor Faust non sono poi così diversi, allora il confine è situato nel campo dell’efficacia.

Se la Scienza si configura come un metodo per risolvere problemi allora il confine tra Scienza e magia si situa nella discriminazione tra efficace e inefficace accanto a quella, più teoretica ed estremamente più insidiosa, tra falsità e verità. A tal proposito, in un’illuminante dichiarazione, il deceduto docente e attivista del Partito Radicale Luca Coscioni, paladino italiano della lotta per l’eutanasia, gravemente malato di SLA, ebbe ad affermare «C’era un tempo per i miracoli della fede. C’è un tempo per i miracoli della scienza. Un giorno, il mio medico potrà, lo spero, dirmi: prova ad alzarti, perché forse cammini». Abbiamo qui, in maniera evidentissima, il nesso tra miracolo, scienza e problem solving. La Scienza sarebbe quindi, per Coscioni e per la cultura ufficiale, quella prassi, quel metodo che risolve i problemi laddove altri metodi avevano fallito (in questo specifico caso la fede -basta pensare a Colui che, per primo, disse “alzati e cammina”, che per il paradigma scientifico e positivistico egemone altro non sono che pensiero magico); qui è il miracolo al centro di tutto, ovvero l’oltrepassamento dei confini del reale. Per Coscioni, a ragione, Scienza e magia si rapportano entrambe al miracolo, all’oltrepassamento dei confini della normalità e l’unica differenza sarebbe, appunto, che la Scienza riuscirebbe laddove la magia e la fede avevano fallito.

Ci stiamo, forse, avvicinando al nocciolo della questione: il discrimine tra Scienza e magia sarebbe quindi la loro funzionalità all’appagamento dei desideri umani, mentre non sussisterebbe alcuna differenza realmente essenziale tra di esse a monte della prova empirica. Si tratta di una tesi corroborata da diverse osservazioni alla luce degli studi sulla storia della Scienza. Non deve in alcun modo stupirci il fatto che, a mano a mano che ripercorriamo a ritroso la linea del tempo, la figura del mago e quello dello scienziato finiscano sostanzialmente per coincidere e confondersi, tanto che oggi faticheremmo ad ascrivere una figura come quella del medico Paracelso al campo della Scienza anziché a quello della ciarlataneria. Se le cose stessero così allora potremmo affermare, in punta di provocazione, che una prassi magica, una ciarlataneria, non sarebbe altro che una “una scienza che non ce l’ha fatta” (si pensi, a titolo di esempio, al mesmerismo o alla frenologia), e che viceversa una teoria scientifica non sarebbe altro che “una prassi magica che ce l’ha fatta”. Se l’attributo principale del miracolo è il far accadere ciò che solitamente non è possibile alla natura umana (o a quella generale, almeno per quanto se ne sappia) allora le cose stanno, con ogni evidenza, proprio così, e tra la Scienza e la magia non sussiste alcun confine reale. Anche la magia del resto è, come abbiamo visto, problem solving e i “problemi” da risolvere sono fondamentalmente sempre gli stessi. Non è un caso, dunque, che la figura del mago sia, anche storicamente, sovrapponibile con quella dello scienziato, così come non è un caso che il metodo sperimentale ancora oggi architrave della prassi scientifica tragga origine nel laboratorio dell’alchimista e non nello studio del sacerdote, dell’accademico o del filosofo, vale a dire in quelli che erano i templi della cultura ufficiale dei tempi in cui la Scienza moderna muoveva i suoi primi passi, fuori da ogni legittimazione delle autorità.



Figli di un’epoca che squalificava, fin dalle epoche più antiche, il lavoro manuale, alchimisti e “maghi” erano coloro che, a differenza degli intellettuali della filosofia e della teologia ufficiale, si sporcavano realmente le mani maneggiando la materia, studiandola nei primi laboratori, mossi dal comune denominatore dei desideri, sempre quelli, che solleticavano il cuore e la mente tanto di Boyle quanto del nostro Piero Angela. La passione per l’alchimia, la numerologia e altre discipline oggi catalogabili come “magia” o ciarlataneria, da parte di molti illustri scienziati del passato è, del resto, cosa nota, basti pensare al già citato Paracelso, a Cartesio, a Newton, allo stesso Robert Boyle. Ciò che qui ci preme non è quindi il sottolineare un generico interesse da parte di alcuni scienziati del passato per quella che oggi chiameremmo pseudoscienza, quanto piuttosto l’assoluta identità essenziale tra quest’ultima e quella che oggi chiamiamo “Scienza ufficiale”, la quale, come insegna la più moderna epistemologia, ancora una volta a suffragio della tesi qui proposta, è tale fino a quando un nuovo paradigma non la smentisce, derubricando anch’essa a pseudoscienza, a ciarlataneria.

Non vi sarebbe alcun confine, quindi, tra Scienza e magia, se non quello della mera funzionalità di fronte alla prova empirica. In realtà, anche questo confine sembra essere meno delineato di quanto non appaia agli osservatori, basti pensare a quanti problemi sono stati effettivamente risolti e quante invenzioni hanno preso realmente vita sulla terra basandosi però su teorie scientificamente sbagliate (o, per meglio dire, superate) quali, ad esempio quelle della fisica newtoniana, proprio perché queste non erano sbagliate o false in re ma erano, semplicemente, funzionali alla risoluzione del problema posto dalla volontà umana di rispondere ad un’esigenza, di sopperire a una mancanza. Ancora una volta si ritorna, quindi, al concetto di bisogno. Se magia e Scienza sono la stessa cosa, ovvero metodi, anzi un solo metodo per risolvere problemi, allora è chiaro che l’essenza dei metodi concerne la natura medesima del problema, vale a dire la natura umana, ed essa, lo abbiamo visto, è mutata poco rispetto ai tempi antichi. Giovinezza, piaceri e, più generalmente, l’annullamento della condizione di bisogno: è questo l’insaziabile forno alimentato dal desiderio che produce, quasi a guisa di fumo o di cenere, tanto la Scienza quanto la magia e la stregoneria, ed il progresso tecnologico stesso si qualifica come senza freni poiché senza freni è anche la cupiditas umana con la sua tendenza all’automoltiplicazione esponenziale che già il giovane Spinoza aveva ravvisato nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto[1] e che è così ben descritta nell’Etica, laddove ci è presentata come prodotto della somma dell’appetitus animale e dell’autocoscienza tipica dell’uomo.

Spinozianamente parlando, quindi, tutto il problema della Scienza-magia, così come quello delle sue scandalose origini tanto animali (nell’appetitus figlio delle privazioni) quanto umane (nell’autocoscienza del medesimo stato di inferiore potenza rispetto alla natura) si risolverebbe all’interno della natura umana. La Scienza, dunque, si qualificherebbe come la suprema alienazione, laddove con tale termine si intende l’ipostatizzazione, chiaramente inconscia, di un prodotto dell’animo umano nella forma di un idolo dotato di capacità soteriologiche e redentrici. Sarebbe vera per la Scienza, in poche parole, ciò di cui Feuerbach accusava la religione, chiudendo quindi il cerchio del nostro ragionamento, che vede una critica della cultura ufficiale che unifica, essa per prima, i concetti di religione e magia, salvo poi farsi cogliere in fallo laddove questa coessenzialità viene ravvisata anche con la Scienza, erroneamente percepita come metodologia separata. Una prospettiva, quella appena intravista, che getta una luce nuova, ancorchè malferma e ancora precaria, su orizzonti di possibilità totalmente nuovi, tra i quali possiamo vedere, forse, la liberazione dell’uomo dalla tirannia dell’oggetto e dalla schiavitù dall’ennesimo idolo, oltre alla quale potrebbe celarsi, auspicabilmente, un uso più consapevole e presente a sé stesso del desiderio stesso, come un tempo sognato dal giovane Spinoza:

“Niente infatti, considerato nella sua natura, si dirà perfetto o imperfetto, particolarmente poi che avremo saputo che tutto ciò che accade, accade secondo un ordine eterno e secondo determinate leggi naturali. Ma l’uomo, non potendo nella sua debolezza arrivare a capire quell’ordine, concepisce nel frattempo una qualche natura umana molto più forte della propria e contemporaneamente, non vedendo ostacoli al conseguimento di tale natura, è stimolato a ricercare i mezzi che lo conducano a quella tale perfezione, e tutto ciò che può essere un mezzo per pervenirvi si chiama vero bene. Il sommo bene poi è considerato il pervenirvi, così che l’uomo con altri individui, se è possibile, goda di tale natura. Mostreremo a suo luogo qual è questa natura, cioè che essa è la conoscenza dell’unione che ha la mente con tutta la natura. Questo è dunque il fine al quale tendo: acquistare una tale natura e cercare che molti la acquistino insieme con me; cioè fa parte della mia felicità anche l’adoprarmi perché molti altri pensino come me ed il loro intelletto e i loro desideri s’accordino perfettamente col mio intelletto e coi miei desideri.” [2]


Marco Malaguti


[1] B. SPINOZA, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 4,5, pp 11-12, ed. SE, Milano 2009

[2] Ivi, § 12-13, p. 14

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