Ci lascia Florian Schneider, e con lui un’idea di futuro

Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo,…
E’ morto ieri pomeriggio a Düsseldorf, dopo una breve lotta contro un tumore, il settantatreenne Florian Schneider-Esleben, co-fondatore del gruppo di musica elettronica Kraftwerk. Due nomi, quelli di Schneider e dei Kraftwerk, che potranno forse dire poco ai nostri lettori più giovani, eppure ci troviamo di fronte ad un gigante della musica contemporanea, e gli stili musicali più in voga dagli anni Ottanta in poi devono molto al suo estro creativo.
Musicista di tutto rispetto, Florian Schneider, prima di dedicarsi alle sue note sperimentazioni, arrivò a padroneggiare chitarra, violino e flauto traverso, studi ai quali dedicò quasi quindici anni di studi tra Düsseldorf e Colonia. Cominciando a trovare “noiosa” la musica accademica, cominciò a sperimentare sonorità diverse fin dalla fine degli anni Sessanta assieme all’altro co-fondatore dei Kraftwerk, Ralf Hütter.
I Kraftwerk, che sarebbero diventati una pietra miliare della cultura musicale, videro però la luce soltanto nel 1970, proponendo sonorità ancora abbastanza diverse rispetto a quelle più elettroniche che il pubblico avrebbe conosciuto qualche anno dopo. Tuttavia, brani come Ruckzuck, nella loro ossessività che tendeva a ricordare i rumori di un macchinario industriale o di un’apparecchiatura medica, pur contenendo strumenti classici come il flauto traverso (suonato proprio da Schneider), avevano già molto dello stile dei Kraftwerk maturi.
Il pubblico non fu certo entusiasta di queste innovazioni, e come spesso accade alle avanguardie artistiche, i lavori di Schneider e Hütter furono giudicati con perplessità, se non addirittura con sconcerto. Wolfgang Flür, futuro componente del gruppo, a cui nel 1973 capitò di ascoltare dal vivo Schneider e Hütter nell’aula magna del liceo Schumann di Düsseldorf, nel suo libro “Kraftwerk. Io ero un robot” racconta che “quella non era musica, e mi fece abbastanza schifo”. Le sonorità industriali che cercavano di imitare i rumori delle incursioni aeree della Seconda Guerra Mondiale, nonché di replicare le asettiche sonorità di stampatrici e scambi ferroviari destavano perplessità in un pubblico, come quello tedesco, il cui orecchio era educato da secoli all’armonia della musica classica.
Quella rivoluzione dei suoni, tuttavia, era esattamente ciò che Schneider voleva ottenere. Non riferendosi a sé stesso come artista, Schneider preferì usare il termine Musikarbeiter, operaio della musica. Il termine operaio rende ben chiara l’idea di come Schneider non vedesse i suoni imprigionati in un ruolo predefinito, ma piuttosto come singoli oggetti da studiare, per poter essere poi combinati e ricombinati (o addirittura sezionati) per generare nuove melodie; un approccio quasi molecolare alla musica.
Questo modus operandi industriale applicato alla produzione musicale, oggi appare come un elemento di assoluta normalità proprio grazie ai lavori di Florian Schneider e dei suoi Kraftwerk. Ci vollero circa cinque anni perché il gruppo riuscisse a far conoscere e comprendere bene la sua arte. Allontanandosi dalle origini kraut-rock, virarono coraggiosamente su sonorità ancora più elettroniche, che però misero in risalto la loro assoluta unicità. Da lì arrivò anche il successo, e con esso le tournèe in giro per l’Europa, dove in soli cinque anni l’apertura del pubblico a novità di questo tipo era molto aumentata.
Il concept a metà tra il Futurismo ed il Bauhaus, la meccanicità dei suoni e l’idea di assoluta armonia che trasmettevano nonostante tutto, sedusse un numero sempre crescente di ascoltatori. In un mondo, quello degli anni Settanta, che aveva da poco assistito agli sbarchi sulla Luna, alla nascita dei primi calcolatori, ed al boom industriale dell’Europa post-bellica, i Kraftwerk parevano i cantori del futuro per come lo immaginavano i giovani di quegli anni.
Diversamente dalle immagini apocalittiche e distopiche con le quali oggi siamo soliti dipingere il futuro, il concept dei Kraftwerk, rimanda ad un’idea di avvenire assolutamente benigna, seppur fredda, razionale, e regolata dal ritmo di produzione e movimento delle macchine. Brani come il celebre Trans-Europe Express, rimandano alle immagini di treni supersonici che solcano, veloci come fulmini, città razionaliste fatte di cubi e parallelepipedi in un’Europa senza più confini, mentre brani come l’altrettanto celebre Autobahn rievocano autostrade fresche di costruzione che conducono alla meta avveniristiche automobili del futuro. Mancano sonorità inquietanti o volutamente cacofoniche, che compariranno invece con gruppi successivi, come ad esempio i berlinesi Einstürzende Neubauten dell’eclettico Blixa Bargeld, che dai Kraftwerk erediteranno moltissimo.
Quello dipinto dai Kraftwerk è un futuro luminoso: un futuro dove uomo e macchina vivono in un rapporto simbiotico e mai conflittuale. Trionfo di questa concezione di futuro è l’album del 1978 “Die Mensch-Maschine” (l’uomo-macchina), nel quale un brano come quello che dà il nome all’album canta, con voci robotiche, un uomo che grazie ai contributi della tecnica è sì diventato “metà-oggetto” (Halb-wesen), ma anche superhuman being. Un concetto ribadito anche dal brano, dello stesso album, “The Robots”, dove ipotetici robot del futuro si sottomettono all’uomo proclamando, in lingua russa, “Ya tvoi sluva” (“Sono il tuo servo”), e “Ya tvoi rabotnik” (“Sono il tuo operaio”).
Il brano The Model, contenuto nel medesimo album, riuscì addirittura a qualificarsi primo nella hit parade britannica per qualche tempo, a dimostrare la celebrità assoluta raggiunta dai Kraftwerk sul finire degli anni Settanta. Nell’album Computer World del 1981 i Kraftwerk si dedicarono invece più approfonditamente ai computer, sia in qualità di sonorità sia in qualità di concept. Nonostante né Internet né i social network esistessero ancora, il brano Computer Love ci narra, tra rumori elettronici e suoni proto-informatici, di un uomo solitario che confida nel computer per trovare la sua anima gemella; un brano però senza toni cupi, senza riflessioni esistenziali sulla solitudine, che trasmette l’evidente certezza che l’informatica avrebbe molto presto risolto anche questo genere di problemi.
Florian Schneider, come una delle macchine cantate dai suoi lavori, rimase sempre fedele alla sua personalità ed al suo ruolo: persona schiva, poco amante dei riflettori e dall’espressione teutonicamente neutra ed imperturbabile, riuscì comunque a vincere due Grammy. Il primo lo vinse assieme ai suoi compagni, dai quali si era separato, rimanendo comunque in buoni rapporti, nel 2009, ed il secondo, tutto per lui, nel 2014 come premio alla carriera.
I Kraftwerk esistono ancora oggi, nonostante Schneider se ne sia allontanato nel 2008 per ragioni non specificate; rimane della formazione degli anni d’oro ormai il solo Ralf Hütter. Dopo aver dato origine alla musica elettronica, ispirando tra gli altri giganti come Chemical Brothers, Prodigy ed Aphex Twin, e contribuendo a gettare le basi per i futuri generi ambient, noise, techno ed house, l’epoca dei Kraftwerk pare ormai al tramonto. Forse era questo che pensava Florian Schneider lasciando il gruppo una dozzina d’anni fa dopo trentotto anni di appartenenza. Più che la creatività, sembra essere il concept dei Kraftwerk, il loro concetto di futuro, ad essere sparito; quasi come se il gruppo avesse attinto da esso come nel deserto un’oasi attinge da una polla sotterranea: prosciugatasi la polla, anche l’oasi finisce per seccare.
Il modo in cui gli uomini del Duemila concepiscono il futuro è ben diverso dal modo col quale lo concepivano quelli degli anni Settanta. E se all’epoca le principali preoccupazioni riguardavano il nucleare (contro il quale il gruppo aveva protestato producendo l’album “Radio-Activity” nel 1975), oggi sono proprio quegli strumenti cantati dai Kraftwerk ad inquietare l’uomo contemporaneo. I robot non sono più nostri servi, come nell’album “The Robots”, ma si apprestano a sostituirci nei luoghi di lavoro, se non addirittura a emanciparsi dal nostro controllo. L’idea dell’uomo-macchina è ormai lontana dall’ottimismo transumanista dell’omonimo testo scritto da Ralf Hütter e Karl Bartos, e gli incubi distopici della nanotecnologia e dei microchip sottocutanei hanno definitivamente sconfitto, almeno sul piano ideale, l’immagine al contempo futurista e vintage attorno alla quale ruotavano la poesia ed il romanticismo industriale del quartetto di Düsseldorf.
In un periodo di pandemia che sembra aver incrinato ogni nostro ottimismo, e demolito ogni certezza sul futuro, la dipartita di Florian Schneider-Esleben, oltre a lasciare un vuoto negli amanti della sua musica, sembra sancire, anche simbolicamente, la morte di un’idea di futuro. Un futuro nel quale uomo e tecnologia sarebbero potuti andare d’accordo.
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Attivo da oltre dieci anni come blogger online, aspirante filosofo, aspirante scrittore, sincero amante di libri, sigari e buon jazz.